01 marzo 2013

Cibo, che passione! Anche etica

 
Il Mart di Rovereto ha inaugurato una mostra che si mangia con gli occhi. Allegra, gustosa, ma per niente frivola. E per fortuna anche lontana da una delle ossessioni che governano il nostro mondo: il comportamento verso il cibo, per consumarlo voracemente o tenerlo a distanza di sicurezza con le diete. Qui si parla di design, di décor. Con ironia e piacere dell'occhio. Ma anche di sostenibilità

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«Festosa, della creatività, del made in Italy» come solo un’esibizione che ha come tema il cibo può essere. Il commento è di Cristiana Collu, direttrice del Mart, riguardo la mostra “Progetto Cibo, la forma del gusto”.

Ma se per caso si pensa a qualcosa di frivolo o di mediatico, si sbaglia di grosso, anche se il cibo oggi è fin troppo spesso al centro di pubblicazioni o programmi televisivi. L’occasione, invece, vuole rilanciare un dibattito sulla «filosofia della recessione», che tanto caratterizza oramai ogni aspetto del nostro vivere quotidiano, e su quell’atteggiamento «ortoressico» che è peculiarità consolidata della società contemporanea, mettendo quindi in atto un tentativo di recuperare un rapporto che sia il più sano possibile con il cibo.

La mostra, curata da Beppe Finessi, presenta al pubblico oltre 200 oggetti, mirabilmente organizzati nell’allestimento «che toglie il fiato» ideato dall’architetto Gianni Filindeu: queste opere sono organizzate in dieci diverse sezioni, tutte volte a sviluppare nell’osservatore una nuova consapevolezza nei confronti di un elemento, il cibo appunto, di cui facciamo consumo quotidiano.

Da il la alla mostra, in apertura, l’altissima citazione del libretto di Bruno Munari Good Design, dato alle stampe esattamente cinquant’anni fa, che prende il via dalla lettura della forma di un’arancia come esempio di «buon design». Da qui si apre la prima sezione della mostra, titolata Il cibo anonimo, dove con anonimo s’intende «privo di un autore dichiarato»: attraverso le illustrazioni di Marco Manini, infatti, alcuni piatti tramandati dalla tradizione vengono sezionati mostrandoci come in realtà la loro forma sia strettamente funzionale alla loro costruzione e cottura: è il caso degli spiedini, della lasagna, dell’hamburger, dell’oliva ascolana o dello strudel, ma anche delle diverse forme di pane – qui presenti a formare una vera e propria scultura – a dimostrare che «il progetto è ovunque».

In tema col progetto del design alla base di molti prodotti alimentari, si apre la seconda sezione – Industria e brevetti – dove la produzione alimentare industriale viene letta alla luce della storia delle forme: dal Pocket coffee al Cremino FIAT – inventato nel 1911 per promuovere il lancio della nuova FIAT Tipo 4 – ai vari formati di pasta, scopriamo come dietro ciascuno di questi prodotti ci sia una vera e propria progettazione, e il deposito di un brevetto industriale a sancirne l’originalità.

La Forma come funzione sottolinea invece come i cibi non abbiano solo lo scopo primario di alimentarci, ma giochino anche un fondamentale ruolo funzionale sulle nostre tavole. Attorno a tale tema lavora la riflessione di diversi designer presenti con le loro innovative creazioni riguardo il pane (Katja Gruijters e Ryohei Yoshiyuki) o il caffè (Enrique Luis Sardi e Alexis Georgacopolous), ma anche sulla sostenibilità di ciò che mangiamo: di particolare interesse sono le soluzioni proposte da Diane Leclair Bisson in FoodNest. The edible project (2011) dove s’immagina che i cibi take-away possano essere consumati in contenitori commestibili, riducendo così la produzione di rifiuti, idea questa supportata anche dal duo Victor Lopes Mascarenhas e Rodrigo Maia, che con Ecookies (2010) propongono palette per miscelare il caffè prodotte in dolce biscotto o da Fernando Laposse che realizza bicchieri monouso in zucchero colorato e trasparente, che oltre a non inquinare dolcificano lentamente le bevande contenute (Sugar glass, 2012).

Dopo la forma-funzione la mostra ci spinge a scoprire la Forma come decorazione, ricordando come anche l’estetica giochi un ruolo fondamentale nei meccanismi attraverso i quali scegliamo un cibo piuttosto che un altro. Il design, infatti, si può fare con tutto, anche con il cibo. Ce lo dimostrano, per fare qualche esempio, Wieki Somers con le sue macchine che creano composizioni di cioccolato (Chocolate mill, 2012), il duo Kumido Maleda e Mario Minale che si divertono ad imprimere “decori Delft” ad altrimenti banali toast (Table manners, 2005), il lavoro Mr’s Singh’s Bangras (2007) di Miranda Bolter e Paul Curral che consiste nell’imprimere un particolare pattern alle omonime salsicce indiane, rendendole così inconfondibili agli occhi dei consumatori.

Il design degli alimenti può anche essere ironico, come ci dimostra la sezione Humor e metafora: navi di zucchero destinate a naufragare in una tazza di tè (Enrico Azzimonti e Jordi Pigem, Le bateau ivre, 2007-2013), veri e propri baffi di cioccolato (Diego Ramos, Mr Chocolate, 2011) ed immortali architetture realizzate in morbida ed instabile gelatina (Bompas&Parr, St. Paul’s jelly, 2009) possono portare il sorriso sulle nostre tavole; allo stesso modo in Alludere il cibo diversi designer si divertono a realizzare oggetti “altri”, non commestibili, rimandando però a forme alimentari.

Sempre sul tema della sostenibilità ragionano gli oggetti raccolti sotto il titolo di Cibo come materia, dove troviamo arredi realizzati con riso, pane, cracker (Riccardo Blumer, 2007), stoviglie fatte con materiale vegetale (Geke Wouters, Turdus, 2007), piccoli oggetti d’uso quotidiano confezionati con gli scarti alimentari (Alkesh Parmar, A Peel, 2011). Dopo un progetto di Martì Guixé realizzato appositamente per il Mart (Transition Menù, 2013) al tema della sostenibilità è poi dedicata un’altra sezione della mostra – Futuro tra ricerca e sostenibilità – dove la visionaria Kwennie Cheng immagina soluzioni per la produzione dei cibi del futuro, quando lo sfruttamento planetario attuale non sarà più sostenibile e dovremmo ricorrere a carni e vegetali prodotti in vitroTissue Enginereed Meat e Growing Food II, 2012 – o a delle stampanti per cibo – Foodprinter e Modernist Fruit, 2012.

Logica conclusione di questo percorso una sezione denominata Etica, che invita all’educazione al cibo sostenibile, da mettere in atto soprattutto nei confronti delle generazioni future. In chiusura l’opera Lingotto (2006) di Giulio Iacchetti dialoga con l’opera in apertura di Bruno Munari: il semplice ma geniale design naturale di un’arancia che ci spingeva a riflettere su quanto possano essere didattiche alcune semplici cose, dialoga con questo lingotto di ghiaccio, con impressa la scritta GOLD, che ci rammenta quanto preziosa sia in realtà una cosa che diamo per scontata, senza che lo sia assolutamente, come è di fatto l’acqua.

Questa mostra dedicata al cibo rappresenta forse un aspetto inedito per il Mart, che racconta il carattere della sua nuova direzione. La cosa che pare più interessante non è tanto il ragionamento attorno al design, anche se di indubbio valore, quanto la riflessione etica svolta passo dopo passo dalla mostra, che in qualche modo apre al dibattito sulla sostenibilità dei ritmi della società contemporanea un ruolo questo, forse, ancora piuttosto inedito per un museo come il Mart. In tal senso anche il catalogo, attentamente curato dallo stesso Beppe Finessi per Electa, si presenta come un libro vero e proprio, non corollario alla mostra, ma indipendente nel suo svolgere i ragionamenti che fin qui si è tentato di illustrare. Una mostra ed un catalogo, insomma, da divorare con gli occhi.

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