03 aprile 2012

Damien Hirst house: vecchi pezzi e nuove tappezzerie

 
Opening oggi alla Tate Modern dell’artista britannico che festeggia 25 anni di carriera. Con nuove carte da parati e tante opere viste e riviste. Le solite critiche sui grandi nomi? No, qui si tratta davvero di riconoscere il probabile declino di una stella dell'arte. Che negli anni ha regalato rabbia, emozioni e stupore. Ma che oggi non va oltre la vanitas. Seppure di dimensioni ambientali [di Valentina Tosoni]

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Apre oggi al pubblico, alla Tate Modern di Londra, uno dei templi dell’arte contemporanea mondiale, la prima retrospettiva dedicata a Damien Hirst. Ma forse, più che guardare all’esclusività dell’operazione, è utile fare qualche incursione dal “dietro le quinte”, ovvero dalla presentazione alla stampa, avvenuta nella mattinata di ieri.
Prima di tutto, nessuna ressa, molta stampa inglese, ma pochi arrivati dall’estero. Colpa della crisi?
Il signor Hirst, dal canto suo, non si è proprio visto e l’ufficio stampa ha riferito che l’artista ha deciso di non parlare con i giornali. Verificheremo nelle prossime ore la veridicità della dichiarazione dalla presenza o meno di interviste rilasciate. O se invece si è trattato del solito vezzo da star. 
La curatrice, Ann Gallagher, ha accompagnato in tour i giornalisti, ma si è limitata a descrivere i lavori esposti, aggiungendo poco o nulla, sottolineando svariate volte che questa mostra racchiude una ricerca di 25 anni, e che Hirst resta uno dei personaggi più popolari della Gran Bretagna e tra i più famosi artisti viventi al mondo.
Una mostra che appare, ad ogni modo, ricca e ordinata. 14 sale in tutto, non un’esposizione mastodontica, visitabile in un paio di ore scarse se si presta attenzione e tempo a tutti i pezzi raccolti.
Si comincia dalla prima sala, con il primo Spot Painting del 1986, senza dubbio il più bello, anche se sparsi qua e là ce ne sono tanti altri, con punti di tutte le dimensioni. Eppure questo primo pezzo resta il più puro, non calcolato, con sgocciolature varie e con un’armonia d’insieme buona. Nella stessa sala d’inizio è presente una foto di Hirst, beffardo quasi, in posa con la testa di un morto, ricordo di quando lavorò in obitorio.

Dalla seconda sala però si entra immediatamente nella produzione degli anni Novanta, dove sono stati mischiati alcuni Spot paintings e due box di Vanitas con le relative mosche volanti: in uno di questi, a terra, è appoggiata una testa di mucca squoiata, sanguinolenta, e il liquido rosso lentamente stava già formando una macchia sul pavimento, lasciando avvertire un certo olezzo. Alle pareti le Medice Cabinet, la cui serie del 1989 prende il nome dalla track dei Sex Pistols Never mind the Bollocks.
Al centro della terza sala, circondato da altre teche con pasticche contraffatte, mozziconi di sigarette disposti con ordine ossessivo tipico delle raccolte di Hirst, c’è The physical impossibility of Death in the mind of someone living, del 1991, con alle sue spalle il masterpiece Mother and Child divided, la mucca divisa in due con il vitellino al suo fianco, che fece molto chiasso alla Biennale di Venezia del ’93. E fin qui nessuna sorpresa.

Girando l’angolo, invece, anticipata da una sala con le tele a farfalla, si entra in un ambiente in cui è stata creata una climatizzazione adatta con vaporizzatori e caloriferi dove farfalle vive volano libere su piante e canestri di frutta a pezzi. Sono circa trecento, splendide, ma in un habitat triste, non ben ricreato, dall’effetto stranamente squallido. Sono imprigionate, nonostante abbiano ancora la libertà di volare.  Indubbiamente soffrono e moriranno, e ci si chiede se, ancora una volta, si insegua lo scandalo con gli animalisti. Sembra quasi che Hirst ricerchi la morte, anche per loro, per sublimarne la bellezza, come si vedrà qualche sala più avanti, dove le ali ricreano effetti di vetrate gotiche o mandala, ordinati e preziosissimi.
Le novità arrivano nelle seguenti due sale, dove queste immagini fatte con ali di farfalle sono state riprodotte e stampate, divenendo carte da parati che fanno sfondo nella dodicesima sala a Blackout Sun, del 2004, enorme tondo composto da mosche nere appiccicate, con relativa pecora nera in formaldeide.
«La carta da parati – ha spiegato la curatrice Ann Gallagher – è il vero inedito, ed è stato pensato dall’artista per l’allestimento di due sale».

Nella successiva, infatti, la più sfavillante e preziosa, l’effetto si ripete: carta da parati che riproduce teche con zirconi su sfondo oro, al centro un piccolo squalo in formaldeide, quadri a sfondo dorato con farfalle appesi e, appunto, teche dorate con zirconi in tridimensione disposte in ordine una dopo l’altra.

Nell’ultima sala una grande tela bianca con spot bianchi fa da sfondo a una colomba in teca con le ali spiegate, crocifissa nonostante sia il prototipo stesso del simbolo di pace: non a caso il titolo è The incomplete truth, datata 2006. Un esempio che contiene e rappresenta bene la dualità che attraversa tutta l’opera di Hirst: «Life and Death are the biggest polar opposites there are. I like love and I like hate… I like all those opposites. On and off. Happy and sad». Ipse dixit.

Le sale dedicate alla serie Pharmacy sono esattamente come ce le possiamo immaginare, mentre nella Turbine Hall, dentro una piccola stanza completamente buia si trova For The love of God, il teschio di diamanti che in Italia abbiamo già ammirato in ben altra cornice a Firenze, e che in questo caso non si può fotografare.

Insomma, davvero le sorprese languono e del resto, come la Gallagher sottolineava di continuo «la mostra fa parte del festival culturale realizzato in concomitanza con le Olimpiadi». Quindi, aggiungiamo noi, è un’attrazione sicura.
Le conclusioni? Un corpus di opere notevoli, o che per lo meno lo sono state, ma che ora sono diventate davvero tappezzeria. Certo, l’impatto rimane forte, importante, ma tutto è già stato talmente stravisto e spolpato che questa ennesima visione non aggiunge altro, se non un pensiero: che sia stata appositamente concepita per le masse, digiune di contemporaneo, che si avvicinano a Hirst solo ora. Ora che l’ex bad boy pare aver definitivamente perso quella forza dirompente per diventare un classico, senza voglia di stupire o cercare nuove poetiche, e provocazioni.
Se siete a Londra un consiglio importante: magari vedetevi Hirst, certo, senza tralasciare il nostro Boetti, di scena anche lui alla Tate, ci sarebbe da indagare sulla convivenza tra questi due artisti così diversi. Ma non dimenticatevi David Hockney, che chiude questa settimana alla Royal Accademy. Le code sono mostruose,  ma le opere splendide. Lì c’è ancora da godere!

1 commento

  1. Poco prima dell’inaugurazione della grande retrospettiva alla Tate, Julian Spalding ha scritto, in un articolo per l'”Independent”, che le opere di Hirst sono come i sub-prime dell’arte mondiale e che i collezionisti farebbero bene a venderle prima che le quotazioni crollino. A suo parere quella di Hirst (e sembra di capire anche molta arte post-duchampiana) non è vera arte. Spalding la definisce con il termine da lui coniato “Con Art”, abbreviazione per “contemporary conceptual art” e per “arte che truffa le persone” (in inglese “to con” significa truffare). Segnalo il link e consiglio la lettura:
    http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/julian-spalding-damien-hirsts-are-the-subprime-of-the-art-world-7586386.html

    L’era di Hirst, Cattelan, Koons sta per finire. Credo lo abbia capito lo stesso Cattelan, che ha annunciato un fantomatico “pensionamento”, mentre Hirst ha probabilmente maturato il sospetto che la sua fama non durerà per sempre e cerca di ottimizzare i profitti finché può, rischiando forse di bruciarsi. Mentre all’estero la stampa sembra aver intuito la direzione verso cui soffia il vento (qualcuno ha scritto addirittura finti memoriali…) in Italia testate autorevoli difendono l’immobilità del sistema e chiudono gli occhi.
    Credo che in tempi di crisi economica e sociale, come quelli che stiamo vivendo, venga progressivamente a mancare il terreno fertile in cui fino ad oggi è cresciuta quella che Spalding chiama “Con Art”. Mi riferisco ad un mercato solido e in espansione, in grado di assorbire una produzione che usa il mercato stesso come bersaglio critico, pungolandolo con le provocazioni come fa l’attizzatoio con il fuoco, per ottenere appunto l’unico risultato di alimentarlo. Credo che la brace sia ormai quasi spenta. La spinta antisistemica che spesso apprezziamo nelle opere di Cattelan e Hirst è finora sempre stata sapientemente riassorbita dal sistema attraverso i meccanismi della desublimazione repressiva. Oggi invece la crisi acuisce i contrasti e fa venire i nodi al pettine. Penso che la prospettiva che abbiamo di fronte (che non trovo affatto rassicurante) sia quella di un ritorno all’ordine antirelativista.
    In un’epoca che arranca per superare la postmodernità e disperatamente cerca il solido appiglio di nuovi riferimenti etici e culturali per uscire dal tempo sospeso di questo inizio di millennio, si impone con forza la necessità di un’attenta riflessione su tematiche come l’identità, il pubblico, il rapporto valore/prezzo e le dinamiche centro/periferia.

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