22 maggio 2012

Governare gli Ingovernabili

 
La seconda edizione delle Triennale del New Museum è una mostra convincente. Ricca di spunti di riflessione su una produzione artistica giovane e per lo più extra europea. Talmente ben fatta da riportare all'ordine quel tratto anarchico di disobbedienza che caratterizza i movimenti a cui si ispirano gli artisti [di Paola Tognon]

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“The Ungovernables” è il titolo della seconda New Museum Triennale di New York, aperta sino al 22 aprile 2012 e curata da Eungie Joo. Forse l’unica mostra istituzionale nella quale si registra una ricerca contemporanea nella Manhattan di primavera accesa dalle numerose fiere, dalle gallerie di Chelsea tirate a lustro e dalla parallela Biennale del Whitney.

Percepibile nell’occasione la vocazione del New Museum che si descrive “come l’unico museo di New York nato con l’esclusiva missione di promuovere le nuove idee e le nuove riflessioni dell’arte contemporanea internazionale”, secondo uno schema di fedeltà al progetto del 1977 ispirato alla sua fondatrice Marcia Tucker. Così, nella grande kermesse di marzo della Grande Mela, accanto a qualche galleria nel Lower East Side o alla bellissima monografica di Sarah Sze alla Asian Society, solo il New Museum offre per tematiche e opere la testimonianza di una ricerca che supera la geografia occidentale e ci introduce a una dimensione etica ed estetica capace di registrare le istanze più contemporanee della ricerca visiva.

“Ingovernabili” cerca di riflettere sulla generazione che nasce dopo i movimenti rivoluzionari e d’indipendenza degli anni Sessanta e Settanta. L’intento curatoriale è esprimere due energie contrapposte che convivono nel presente, l’impermanenza e l’impegno verso una dimensione di attualità fortemente rivolta al futuro. E proprio il concetto di ingovernabilità viene preso a soggetto in quanto esemplificazione di una condizione collettiva – quella di Paesi che cercano di raggiungere una nuova forma di governo e vengono quindi dichiarati “ingovernabili” dalle attuali forze al potere – e di una condizione individuale vissuta da chi si pone oltre l’ordine stabilito sperimentando il limite tra lecito ed illecito.

Trentaquattro le presenze in mostra tra singoli, gruppi e collettivi temporanei e, come nei presupposti del curatore, si tratta di artisti nati tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Dentro questi numeri si segnala, come già nelle recenti Biennali di Istanbul e Lione, la grande presenza dei sudamericani, l’eccezionale numero di artiste donne, la significativa presenza di collettivi e gruppi provenienti da paesi extra europei e infine la produzione di progetti speciali come “Invisible Borders”, nucleo fotografico trans-africano e “l’Hub Museum”, cioè le nuove residenze ospitate nel museo che sorge sulla Bowery, volte alla sperimentazione e allo scambio internazionale.

Partendo dall’ultimo piano espositivo, troviamo la gigantesca scultura in cemento di Adrian Villar Rojas. Struggente evocazione di un mondo perduto, la scultura è un’ibridazione fuori scala tra un animale grottesco e un robot pre-tecnologico che tenta di reggersi su piccoli piedi frantumati. Per contrasto, al primo piano, allestiti come gioielli dentro una bacheca, i piccolissimi disegni in bianco e nero di Rita Ponce de Leon.

Nei quattro piani del New Museum si mette in luce la violenza gestuale e sonora dell’opera video O Seculo di Cinthia Marcelle e Tiago Mato Machado, dove oggetti di ogni tipo, dalle stoviglie ai bidoni alle sedie, vengono lanciati sulla strada da mani invisibili. E nel gioco dei contrasti apparenti dentro il binomio impermanenza-impegno, risalta l’opera video Jewel di Hassan Khan dove la riproposizione della tradizionale musica Shaabi in formato elettronico e ballata da uomini diventa icona del cambiamento. Nuovamente in chiave intimistica ecco la stanza di Lee Kit, assemblaggio di oggetti che rimandano, in chiave scolorita, al format occidentale dei consumi. Nella scultura, altra presenza forte sono le minimali e ironiche forme di Iman Issa che fanno il verso alla monumentalità dell’Est e dell’Ovest, tra piccoli obelischi appoggiati a terra e superfici dorate sopraelevate. Ma anche le sfuggenti superfici colorate della storica dell’arte e artista Julia Dault, trattenute da cinghie scure per formare cilindrici irregolari, appoggiate ai muri e rese ancora più instabili dalle lisce superfici riflettenti, compongono in un gioco formale illusorio, un’evocazione instabile ed effimera della scultura del XX secolo.

“The Ungovernables” di Eungie Joo, dopo “Younger than Jesus” curata da Massimiliano Gioni, è un’occasione positiva per osservare con gli occhi di un’istituzione americana la ricerca sull’attualità che accoglie uno sguardo molteplice per istanze, economie e geografie. Ma, seppure si respiri una dimensione intensa grazie alla presenza di opere acute e provocanti, il progetto curatoriale sotteso ha costruito una mostra che sembra fin troppo ordinata. Un progetto che nel promuovere l’ingovernabilità, come ricerca di libertà ed emancipazione, mette a regime anche le espressioni più sensibili o radicali della sua arte. Mais c’est l’Amérique.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te lo sei perso? Abbonati!

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