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06
novembre 2017
Il museo tra presente e futuro
Progetti e iniziative
Cosa succede alle istituzioni museali nell'era post-digitale? Ecco i risultati del convegno alle OGR, su possibilità e criticità di un'epoca in cui siamo già entrati senza accorgercene
Il frenetico clima torinese nella lunga settimana di Artissima trova una sosta di carattere riflessivo nel convegno internazionale “Museum at The Post-Digital Turn” organizzato da Amaci, Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, e OGR, Officine Grandi Riparazioni, dove si è svolto l’evento. La due giorni è stata concepita per promuovere la riflessione sull’impatto che la tecnologia e il digitale hanno avuto – e indubbiamente avranno – sulle istituzioni museali, in termini di ridefinizione dello statuto del museo, del rapporto tra istituzione e pubblico, ma anche di interpretazione, conservazione, comunicazione e fruizione dell’opera. Riflettendo su esigenze presenti e scenari futuri, curatori, critici, intellettuali e artisti di rilievo internazionale hanno presentato – ad un pubblico di addetti ai lavori – le loro più recenti teorie e proposte sulla necessità di rinnovare la figura istituzionale del museo, indagato nella specifica angolazione della cosiddetta era “post-digitale”.
A cura di Lorenzo Giusti, membro del consiglio direttivo di Amaci e direttore del Man di Nuoro, e Nicola Ricciardi, direttore artistico delle OGR, il convengo è stato ospitato in una sala conferenze d’eccezione, costituita dalla ricostruzione di Prototype Design for a Conference Room (1999) di Liam Gillick, considerata parte dell’esposizione appena inaugurata Come una falena alla fiamma, co-curata dell’artista britannico, Tom Eccles e Mark Rappolt. Concepita per mettere in luce la mancanza di critica negli spazi dell’arte contemporanea, l’opera si presenta come spazio per dibattiti dall’apparenza confortevole ma dalle sedute estremamente scomode come quelle di uno studio televisivo, racconta lo stesso Gillick, dimostrandosi infine rappresentazione delle condizioni lavorative degli ultimi decenni.
Museum at The Post-Digital Turn
La prima giornata è iniziata con l’introduzione di Lorenzo Giusti ai punti essenziali del progetto che, dopo due anni di gestazione, si propone come primo momento di una nuova fase per Amaci, interessata non solo a creare e promuovere un network tra le istituzioni museali italiane, bensì a divenire una realtà di produzione e riflessione sul settore. Sul tema del digitale, Giusti sostiene la necessità di analizzare e valutare sia le possibilità che questo ha portato alle istituzioni museali, ma anche le problematiche esistenti e i rischi che ne conseguono. Su questo tono si è svolto l’intervento del filosofo e critico d’arte Boris Groys che ha esposto la sua teoria sulla trasformazione dell’artista da “form giver” a “content provider”, la quale sarebbe avvenuta con l’era internet. Secondo lo studioso, mentre prima il compito dell’artista consisteva nel dare forma a contenuti scelti da altri (ad esempio con motivazioni di culto, committenza), attualmente egli riproduce le forme imposte dalla tecnologia, tra cui la distribuzione e circolazione delle informazioni, replicando l’atteggiamento dei mass-media ed evitando di scontrarsi contro questo status quo in maniera critica. Tale situazione potrebbe comportare la diffusione di ideali autocratici, in quanto internet non è più conosciuto come il territorio libero di cui si parlava negli anni Novanta, ma come luogo estremamente fittizio, selettivo e influente governato da corporazioni e caratterizzato da algoritmi, dipendenti tanto dalle domande degli utenti quanto dalla censura, come noti casi di politica internazionale, di economia e finanza hanno palesato negli ultimi anni. Secondo lo studioso, il museo potrebbe svolgere un ruolo importante nell’arginare questa deriva, recuperando il fondamento universalistico espresso alla sua nascita, a partire dall’esperienza del Louvre e del museo quale sospensione estetica della tradizione culturale europea. Tuttavia i progetti universali non trovano appoggio politico nella nostra epoca, divenendo utopistici, e al solo museo rimane la possibilità di mettere assieme elementi provenienti da diversi ambiti e culture, luoghi e provenienze, per creare un vero archivio globale il quale, benché sempre gestito da privati e frutto di meditate selezioni, ha comunque la possibilità di mettere in atto strategie universalistiche. Nonostante la natura prettamente filosofica delle sue teorie, Groys si è confermato punto di riferimento per molti addetti ai lavori, risultando, assieme al suo volume In the Flow (2016), il più citato durante il simposio.
OGR, Officine Grandi Riparazioni
Partendo dal comunicato stampa della mostra “The Machine as Seen at the. End of the Mechanical Age “del 1969, Lauren Cornell – direttore del CCS’s Bard Graduate Program e capo-curatore all’Hessel museum of art – ha proposto uno studio sull’arte digitale condotto su esposizioni newyorkesi, concentrandosi sull’influenza dei dispositivi tecnologici sulla teoria e sulla produzione artistica. Un excursus storico mirato a considerare la specifica percezione che nelle diverse epoche poteva svilupparsi sui media, quanto sulla difficoltà di trasportare l’arte digitale in uno spazio espositivo canonico quale quello museale. Su questo tema, l’esempio dell’istituzionalizzazione della Net art compiuto nel 1997 alla Documenta X, ripreso anche dal critico d’arte, professore e curatore Domenico Quaranta che ha svolto una ricognizione storica di esposizioni internazionali con riferimenti anche alla scena italiana delineando, oltre alle problematiche inerenti la traduzione dei formati delle opere in sedi espositive, anche un ritardo negli studi che vede l’Italia arretrata rispetto ad altri Paesi, dove il ruolo di professionista del digitale è ormai una realtà storicizzata.
Un panel con Victoria Walsh – Royal College of Art, Malene Vest Hansen – Università di Copenaghen – e Cecilia Hurley-Grenier – École du Louvre, ha presentato diversi case studies relativi alla curatela come disciplina in trasformazione: nel proliferare di eventi temporanei e mobili, nella ricerca di strategie di presentazione multimediale delle opere, nel crescente pubblico digitale, che vede le mostre attraverso fotografie fruibili sui siti dei musei e sui social network. Un atteggiamento che sembrerebbe allontanare il pubblico dalle sale del museo, già pago di una ricezione online, e che Claire Bishop – professore al Graduate Center Cuny, trova essere una soluzione ideale contro l’alto numero di visitatori che rendono difficile la fruizione di mostre in città come New York e Londra. Al di là di questa posizione, l’autrice di Radical museology (2013) ha presentato la sua teoria sulla presenza dell’arte performativa nello spazio espositivo, rispondendo alle accuse rivolte a tali pratiche da storici dell’arte e addetti, come recentemente avvenuto per il Padiglione Germania di Anne Imhof (2017) per cui si è parlato di “instragrammable work”. Ragionando sulle dance exhibition, Bishop sostiene che attualmente lo spazio espositivo è una “grey zone”, a metà tra il black box teatrale e il white cube, caratterizzato dalla temporalizzazione dell’esposizione, dalla continua trasformazione degli elementi materiali presenti, dalla convivenza di molteplici prospettive per il fruitore, completamente immerso in un evento che si dispiega attorno a lui, tra partecipazione e sperimentazione. Allo spettatore è quindi possibile prendere parte all’evento, anche fotografando, magari distraendosi per parlare, per poi tornare a concentrarsi in altro modo, liberamente, senza che questo implichi un de-potenziamento dell’opera, afferma Bishop. Piuttosto attualizza la funzione relazionale del teatro interrotta dal mito della concentrazione totale, a partire dalle teorie di Wagner e da Bayreuth. Sia Glass che Wilson si aspettavano che gli spettatori potessero addormentarsi durante l’esecuzione di Einstein on the beach (1975), dalla durata di circa cinque ore perché, come ricorda Bishop, la fruizione è sempre stata mediazione. Mentre Christiane Paul – professore alla School of Media Studies e curatore per la Digital Art al Whitney museum – si interroga sulla necessità di conservazione delle opere digitali, in termini di depositi, migrazione e reinterpretazione su diversi formati tecnologici, sulla presenza del digitale nei progetti di mediazione, sotto forma di dispositivo tramite cui osservare l’opera o, come con Google Art & Culture, “visitare” virtualmente un museo, e che lascia in mano ad una corporate l’immagine di un’istituzione culturale. Nella corso della giornata si sono susseguite le relazioni di Sara Abram, Hélène Vassal e Sanneke Stigter incentrate sulle esperienze di collezionismo e conservazione del digitale, con gli esempi, rispettivamente, del Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, del Centre Pompidou e del progetto “Dial for complex artwork” svolto da Stigter presso l’Università di Amsterdam.
Museum at The Post-Digital Turn
Iniziata con un panel sul design e le arti tenuto da Michael Grugi – Rhode Island School of Design, Claudio Germak – Politecnico di Torino – e Lily Díaz-Kommonen – Aalto University, la seconda giornata è stata caratterizzata dall’intervento degli artisti. La vincitrice del premio Illy Cecile B. Evans ha presentato la sua teoria sulla materialità del digitale in dialogo con Carolyn Christov-Bakargiev, direttore di GAM e Castello di Rivoli, che ospita una personale dell’artista a cura di Marianna Vecellio. Raccontando i temi sottostanti l’opera Amos’ World: Episode One ivi esposta, l’artista ha affrontato il tema della relazione bilaterale tra umanità e digitale che mira alla riscoperta del sentimento e dell’esigenza di intendere il digitale come parte effettiva e concreta della nostra realtà. A chiudere, Liam Gillick e Nicola Ricciardi hanno conversato sul futuro delle istituzioni e del lavoro culturale, esaminando problematiche e sfide che, nel caso delle OGR, intendono applicare un sistema di interconnessione tra discipline. Per rispondere a esigenze differenziate, si rende necessario ripensare al luogo di eventi come ad un dispositivo strutturato per essere modificabile per far permettere lo svolgimento, in un’unica giornata, di un convegno, un’esposizione d’arte, e un concerto. A loro volta, gli eventi sono intesi come occasioni per testare formati espressivi diversi inerenti alla medesima area disciplinare. Un esempio lo fornisce Ricciardi anticipando parte della programmazione espositiva annuale che vedrà la presentazione di un progetto di Tino Sehgal, incentrato sulla materialità del corpo e del gesto, con la presenza di settanta performer, e successivamente di un’opera di Susan Phillipsz, la cui ricerca è invece calibrata sul potere trasformativo della voce. Per chi ha mancato l’appuntamento, gli atti verranno pubblicati da Mousse Publishing come parte del primo numero della collana dal titolo Museo Ventuno/Museum Twenty One.
Alessandra Franetovich