02 dicembre 2013

Il segreto dell’acqua

 
È possibile dipingere con l’acqua? E controllare questo elemento che normalmente è solo di supporto al colore? La prima risposta è positiva, la seconda è in forse. In mezzo c’è una storia fatta di prove, sperimentazioni, decisioni. E molti imprevisti. Un percorso che comincia dalla fotografia e finisce (per ora) con il video. Il risultato è una particolare, sorprendente pittura in movimento. Come dimostra la personale di Beatrice Pediconi alla Collezione Maramotti [A.P.]

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Beatrice Pediconi 9’/Unlimited 2013 still Courtesy Beatrice Pediconi and Collezione Maramotti
All’inizio era l’acqua. Poi dei colori, una bacinella con l’acqua, delle bacinelle più piccole con i colori. E pluf, questi cadono in quella, accade qualcosa e lei, Beatrice, li fotografa. «Le prime volte non sapevo affatto quello che sarebbe avvenuto, era il caso o, meglio, la sostanza a decidere. Poi ho cominciato a decidere io». Così sono nati quei quadri astratti, quasi informali, leggeri, dalla texture che però non è fatta di colore su tela, ma di carta fotografica. Quadri che in realtà sono foto, ma che da lontano sembrano proprio quadri. Incredibilmente aerei. 
Beatrice Pediconi ha iniziato così a fotografare l’acqua, sempre nella stessa bacinella, al cui interno si scioglievano varie sostanze: prima la china, poi l’uovo, poi colori, infine il rame, usando anche pennelli e spatole per muovere il disegno sulla superficie. E ogni volta l’effetto era diverso, senza perdere quel tratto gioioso dato dall’imprevidibilità. E pensare che lei viene da una fotografia molto asciutta, che immortalava l’architettura. Linee, quindi, geometrie, volumi che diventavano immagini bidimensionali. E rigide. Anche se c’è chi pensa che l’architettura sia un universo mobile, molto vicino al cinema: Giuliana Bruno, nel suo splendido Atlante delle emozioni
Ma quelle immagini create dall’acqua emozionano molto di più, anche perché non si comprendono subito. L’esercizio di identificazione, di ricostruzione razionale cui ogni immagine obbliga chi la guarda, qui perde le coordinate abituali ed è spiazzato. Occorre costruire una grammatica diversa, che non esiste ancora. Inventare una sintassi visiva che non c’è. E alla quale, poi, ci si affeziona. 
Beatrice Pediconi Polaroid #16 polaroid 10 x 13 cm dalla serie / from the series 9’/Unlimited, 2013 Courtesy Beatrice Pediconi and Collezione Maramotti
Conosco da qualche anno Beatrice Pediconi, nata a Roma 40 anni fa e, come molti artisti italiani, emigrata a New York, lei nel 2009. Ne seguo il lavoro con empatia, ne abbiamo discusso diverse volte. L’origine di questo suo “nuovo” lavoro, che ha fatto seguito alla fotografia d’architettura, rimane un segreto di cui Beatrice non ama parlare. Sappiamo solo che ad un certo punto è nata la geografia danzante di un liquido che incontra qualcos’altro. E che emerge come un’epifania. 
Il resto è stato pratica, sperimentazione costante, ma anche gioco, e ancora imprevisto: «Ogni volta che inizio una nuova serie con sostanze diverse rispetto a quelle precedenti, non so veramente cosa succederà. Dopo che lavoro tanto con lo stesso materiale, alla fine mi rendo conto che riesco a controllarlo di più, riesco a prevedere come l’acqua reagirà a quella mia azione. Ma quello è anche il momento in cui capisco che devo abbandonare quella ricerca. Ogni volta è un dialogo diverso tra me, l’acqua, la reazione della pittura e della sua reazione con l’acqua. Ciò che mi piace di più del mio lavoro è inventare cose nuove e rimanerne io stessa, per prima, sorpresa», racconta. Fino a che, penso io, è subentrata un’interrogazione di quello che stava facendo. Un processo di concettualizzazione che è corso parallelo al fare e che lei esprime così: «Con la mia fotografia cerco di trasformare una forma. In fondo anche prima, quando fotografavo l’architettura, facevo questo: lavoravo con proiezioni di luce attraverso oggetti proiettati su superfici differenti». 
Beatrice Pediconi 9’/Unlimited 2013 still Courtesy Beatrice Pediconi and Collezione Maramotti
L’effetto è bello, aggettivo carico di ambiguità e di irresolutezza nella nostra cultura post-estetica. «Se si vede il mio lavoro senza approfondirlo, si grida al bello. Ma in realtà è il tentativo di creare un mondo diverso, è una fuga da quello che c’è», afferma lei. Eppure la “deriva del bello”, magari come esito di una fuga o negazione dal dato, rimane sottotraccia. Qualcuno ha accusato Beatrice Pediconi di fare un lavoro “troppo bello”, decorativo. Qualcosa che accarezza, “compiaciuto”, l’occhio. Sospetto sia un nervo scoperto della nostra cultura italiana, il “bello” a volte, la sua tradizione e la sua consuetudine, sono un freno, un limite per la ricerca artistica. Un orizzonte obbligato cui l’artista italiano non riesce a sottrarsi, con cui rimanda i conti, e che lo penalizza rispetto al cinico e liberatorio esercizio di artisti stranieri. Riformulo questo pensiero in forma di domanda a Beatrice, e lei: «In America nessuno mi ha fatto una critica del genere, è un problema italiano. Al quale oggi mi sento di rispondere: tanto meglio se faccio un lavoro bello, non ne ho paura». 
Sarà per questa rivendicazione forte, maturata in consapevolezza, requisito indispensabile per essere un artista, che Beatrice puntualizza che non si definisce fotografa, ma pittrice. «La mia è una pittura in movimento sull’acqua, che io non posso decidere più di tanto, perchè non riesco a controllarla fino in fondo». 
Beatrice Pediconi Red #20 2011 Courtesy Beatrice Pediconi and z2o Gallery
Un primo cambiamento, quasi di natura empirica, c’è stato nelle dimensioni. Dai grandi “quadri” astratti, Beatrice è passata al piccolo formato delle polaroid, che in realtà usa da tempo, come test o schizzi preparatori, ma che solo da poco ha capito che sono parte integrante della sua ricerca: «Si tratta di un altro processo di sperimentazione, con le polaroid vedo subito le bolle», racconta. Sottolineando lo stupore: «Tutte quelle bolle! Il segno della totale inconsapevolezza della natura del mezzo che va dove le pare». 
In un certo senso, le polaroid sono ancora più “uniche” dei “quadri”, degli exemplum che si arrestano sulla soglia dell’imprevedibilità ma che, al tempo stesso, incarnano il limite dell’artista, il suo arrestarsi di fronte al carattere (dispotico, mi viene da dire) della materia usata: «Ci sono cose difficili da rifare nel mio lavoro», aggiunge lei.
Nella prima sala della Collezione Maramotti di Reggio Emilia che, fino al 31 gennaio ospita una personale di Pediconi (fino al 12 gennaio l’artista è presente anche in una collettiva con Silvia Camporesi e Simona Ghizzoni all’Auditorium Parco della Musica di Roma), le piccole polaroid si affacciano allo sguardo con cautela (altra parola strana che mi viene da usare). Sostenute (difese, quasi) da degli altrettanto piccoli ed essenziali supporti. Non invasivi, semplicemente giusti, frutto della lunga collaborazione che Beatrice Pediconi ha avuto con Marina Dacci, direttrice della Collezione Maramotti. E quelle polaroid, dai colori sgranati dalle bolle, enigmatiche cosmogonie in miniatura dove lo sguardo quasi annega ma poi riaffiora, non precipitato ma, confortato proprio dal piccolo formato, sono semplicemente perfette. Loro, e l’allestimento. 
Beatrice Pediconi Corpo Sottile 6 2006 Courtesy Beatrice Pediconi and z2o Gallery
Si passa in un’altra stanza ed ecco che qui, invece, la danza delle immagini, lo stupore di una pittura in movimento, travolge lo sguardo. Che si perde e viaggia tra mille bolle, veloci o lente traiettorie, comunque imprevedibili, qualcosa che si espande e che occupa prepotentemente il campo visivo. Geografie mobili che si rincorrono lungo le quattro pareti della sala. Geografie sorprendentemente colorate. Di nero, di bianco, color bronzo e grigio. E luminose, per le particelle di rame che Beatrice ha gettato nell’acqua. Improvvise epifanie che evocano la musica, la sua libertà, con cui non a caso Beatrice ha talvolta accompagnato, ma direi meglio indirizzato, il movimento della sua “pittura”. 
E a me, infine, quel turbinio di immagini, quel fluttuare così simile a ciò che immagino essere una cosmogonia, mi ha fatto pensare al tempo. Alla sua circolarità, al senza inizio e senza fine, all’essere sempre. All’eterno ritorno dell’immagine.

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