03 ottobre 2013

Io polish, tu british. Divisi dal mercato

 
Al Centro per l’Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia si è aperta una mostra che mette a confronto la YBA con gli artisti polacchi degli anni ‘90. Non il vis-à-vis di un decennio artistico, ma tra due mondi. Dove in uno «germogliava il neoliberalismo» e nell’altro «il caos», dove tutto però era possibile. A dirlo è un’insider, un’artista polacca emersa in quegli anni e diventata una figura di riferimento: Katarzyna Kozyra. Che ha scritto per Exibart questo testo

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British British Polish Polish Exhibition view Centro per l’Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia
Una bella idea questa mostra “British British Polish Polish” con quel doppio abbinamento: gli anni Novanta del XX secolo e oggi, la Polonia e la Gran Bretagna. Nel sottotitolo si trova ancora quella componente “On the edges of Europe”, è vero: entrambi i Paesi si trovano ai margini dell’Europa, ma entrambi amano credere di essere l’ombelico del mondo.  
La prima impressione è quella di una mostra di sicuro interesse: da una parte gli artisti YBAs, dall’altra gli artisti polacchi della corrente dell’arte critica, quella degli anni Novanta, quella “prolungatasi nel tempo” (secondo la tesi di uno dei due curatori, Tom Morton), più la generazione più giovane ancora senza nome, non “etichettata”. Una mostra dalle molteplici sfaccettature il cui denominatore comune è costituito dalla tesi su “CERTE” rassomiglianze o piuttosto su una “CERTA” simmetria tra i fenomeni che si manifestano QUI e LA’ nell’arte. E implicitamente una domanda ulteriore: SE e che cosa la generazione più giovane conserva dei rivoluzionari anni Novanta. 
Una mostra enorme: in totale 64 artisti, più di 140 lavori esposti. Aperta dalla Piramide degli animali, il lavoro con cui mi sono laureata nel 1993. Un cavallo, un cane, un gatto, un gallo sovrapposti uno sull’altro. Nell’ordine: comperati, soppressi, impagliati e alla fine fissati uno sull’altro. Culturalmente si tratta di animali d’uso quotidiano. Il lavoro è accompagnato dalla documentazione video del processo di uccisione e preparazione di quel cavallo concreto, destinato qui non al consumo ma a fungere da base/sostegno per i successivi animali. Sullo sfondo (benché si possa vedere questa mostra anche dalla parte opposta e quindi in primo piano), Away from the Flock, un’opera del 1995 di Damien Hirst, l’artista di punta degli YBAs: una pecora sezionata per lungo e conservata in due moduli identici pieni di formalina. Lo spettatore può passare in mezzo e guardare l’interno dell’animale diviso in due perfette metà… 
British British Polish Polish Exhibition view Centro per l’Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia
Perché descrivendo la Piramide metto in rilievo la parola “concreto”: un concreto CAVALLO? E perché descrivendo Away from the Flock uso la parola “modulo”? Perché i curatori Marek Gozdziewski e Tom Morton, accostando lavori di artisti polacchi e britannici tematicamente convergenti – riguardano infatti la morte, la strumentalizzazione e reificazione degli animali, la mutilazione, la malattia, l’invecchiamento e altri “orrori” di società avviate verso un consumismo sempre più brutale –, riescono inaspettatamente (anche per loro stessi) a far emergere le differenze più importanti e l’essenza di due scene artistiche. La morte espressa in due modi, in due formati. Damien Hirst e gli YBAs si ritrovano presto sul mercato (o è il mercato a trovarli). E il muso di mucca gettato in mezzo alla sala (una delle prime azioni di Hirst) diventa il “modulo” delle pecore, della mucca o dello squalo sezionati e immersi nella formalina (assicurando così una esposizione più sicura!).  
Nel mio caso la Piramide degli animali è diventata Olimpia, esposta tra l’altro in questa mostra. Questo lavoro è sorto come reazione all’enorme aggressione mediatica che ho subito dopo la Piramide. In Olimpia, istallazione costituita da tre fotografie e da un filmato, semplicemente ho esposto me stessa, come preda. Durante la chemioterapia, mentre ricevo la flebo, posando come una (calva) Olimpia di Manet. L’ultima foto mostra compare invece una smagrita vecchietta dell’ospizio. Damien Hirst sfrutta l’occasione che gli offre il mercato: diventa un “champion market”. E che faccio io nel frattempo? Cedo parte del mio lavoro (gratis!) a un collezionista che insiste per comprare soltanto una foto (quella più ispirata a Manet). Riuscendo a fargli prendere quello che non vuole (ovvero le altre due fotografie e il video) riesco a conservare la coerenza dell’opera, il suo senso e il suo scopo principale. 
Katarzyna Kozyra Olimpia
Analogamente un mio collega dell’atelier Kowalski (facente parte del dipartimento dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia diretto da Grzegorz Kowalski dove si sono formati i maggiori artisti polacchi tra cui Althamer, Kozyra e Zmijewski n.d.r.), Paweł Althamer – che adesso appare immobile, congelato da Massimiliano Gioni alla Biennale di Venezia – continua a mantenere la processualità, voglio dire quell’attitudine legata all’esperienza dell’arte piuttosto che alla realizzazione di un “oggetto” che poi andrà sul mercato. Nella mostra “British British Polish Polish” anche Althamer si presenta con il suo lavoro di laurea: un autoritratto di cera a grandezza naturale. Peccato che manchi il video originale che era concepito come abbinamento alla scultura. Nel video si vede Althamer nudo che, invece di sostenere l’esame finale, fugge in un bosco. Peccato, perché così l’opera è incompleta e peccato perché sarebbe stata un contrappunto perfetto al video in cui Angus Fairhurst salta e si dimena finché non riesce a togliersi di dosso il costume da gorilla restando alla fine nudo. 
Il 1993 è stata una bella annata: anche il terzo lavoro di laurea rappresentato alla mostra nasce nel 1993 nello stesso atelier. Jacek Markiewicz rappresenta se stesso nudo sul pavimento nell’atto di accarezzare la scultura di un Cristo crocifisso. Il tutto in posizione orizzontale perché il pezzo è stato tolto precedentemente dalle pareti del museo. A completare l’opera c’è un breve filmato in cui si vedono due uomini: il padre dell’artista e un dipendente della ditta Markiewicz messi a confronto dal vivo – durante la discussione della tesi davanti alla commissione esaminatrice – come parte dell’istallazione “con l’iniziazione religiosa” del figlio e del datore di lavoro. 
British British Polish Polish Exhibition view Centro per l’Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia
Angus Fairhurst si è suicidato, ma il letto di Tracy Emin alla mostra è diventato soltanto un oggetto convenzionale con sopra un copriletto recante una scritta. Ha conservato in parte la processualità Gillian Wearing, qui con Dancing in Peckcham in quel suo balletto autistico. Interessante è l’associazione con la Lezione di canto di Żmijewski, dove un gruppo di sordomuti canta la messa di Marlakiewicz. 
Ma il più delle volte l’arte britannica è diventata un modulo da esibire presso un ricco collezionista, mentre quella polacca continua ad essere lontana dalla confezione di un “oggetto artistico” e a mantenere fino ad oggi la sua processualità. 
Nonostante CERTE rassomiglianze, effettivamente quei nostri e “vostri” (britannici, europeo-occidentali) anni Novanta si differenziavano notevolmente. La differenza era dovuta ad alcune circostanze indipendenti da noi, intesi come singoli individui. Penso che noi, come voi, abbiamo sfruttato fino in fondo le chance che ci sono state date, anche se lo abbiamo fatto diversamente. Per voi la chance era il mercato, da noi la sua mancanza. Da voi germogliava il neoliberalismo, da noi il caos e la mancanza di formati. In cambio da noi un artista, Wojciech Krukowski dell’Akademia Ruchu, è potuto diventare direttore dell’istituzione CSW Zamek Ujazdowski e a trovarsi al di sopra dei curatori. Anda Rottenberg, la direttrice di una galleria pubblica, ha potuto comprare la mia Piramide degli animali (senza il sostegno del mercato o di una galleria commerciale e a dispetto degli umori che dominavano nella stampa), ma ha perso il posto nell’istituzione a causa delle mostre di Uklanski e Cattelan, artisti MOLTO “di mercato” nell’Europa occidentale. Un artista debuttante come Jacek Markiewicz ha potuto girare parte del filmato rientrato nel suo lavoro di laurea al Museo Nazionale (togliendo un’opera dalla parete e accarezzandola, fatto oggi impensabile!). Da voi c’era quindi la censura del mercato, da noi l’assoluta mancanza di censura (una era stata abolita, l’altra – quella del mercato – non aveva fatto ancora in tempo ad esprimersi); eravamo quindi liberi da “qualsiasi” condizionamento, con tutte le conseguenze che questo comporta. 
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Per me quei prolungati anni Novanta di cui parla Tom Morton non sono altro che “la seconda ondata rivoluzionaria” che esiste già con una notevole consapevolezza all’interno del sistema occidentale, visualmente più piacevole (e quanto!) o perlomeno capace di vendere la propria “spiacevolezza”. Penso a Uklanski e Sasnal. E i più giovani? Si tratta della terza ondata (ma ne siamo sicuri?). È rimasto in loro qualcosa degli anni Novanta, dei miei anni Novanta senza compromessi? E se sì, che cosa? 
Di sicuro alcuni dei polacchi mantengono l’interesse per la relazione con la società, le comunità, la gente, come Franciszek Orlowski. Alcuni artisti vogliono avere un impatto forte verso il pubblico, è il casso di Konrad Smoleński, Nel lavoro di Agnieszka Polska e Katarzyna Przezwańska l’interesse di investigare argomenti sociali è tradotto in un dialogo tra natura e artificio. Il lavoro degli inglesi coinvolge tutti i nuovi linguaggi dei media (twitter, facebook, suoni e immagini) esplorando nuove vie di espressione. Sembra che il loro fine principale sia ancora quello di cercare nuovi formati. Tra di loro ho apprezzato il lavori di Ed Atkins, Haroon Mirza, Elisabeth Price, Matthew Darbyshire
A ben guardare, ciò che faceva la differenza negli anni Novanta, continua a farla anche ora. Gli artisti polacchi mirano ai contenuti, quelli britannici cercano la novità nella forma. Non è una critica, è una costatazione. La sera dell’inaugurazione, affollatissima, i giovani inglesi se ne stavano in disparte, un po’ spaesati. Che il potere imperialista degli YBAs sia finito qui?

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