14 aprile 2012

L’ingovernabile mondo di Urs

 
Palazzo Grassi apre oggi le porte a uno dei pupilli del suo proprietario, l'arciricco François Pinault. E lui, a sua volta, spalanca le porte del suo mondo onirico, debordante, eccessivo. Fatto di vita quotidiana e dove l’errore è di casa. Perché ciò che conta non è la compiutezza, ma l’esserci. L’energia spericolata del fare, come atto d’amore di Urs Fischer per l’arte. Abbiamo visto la mostra in anteprima [di Valentina Tosoni]

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Urs Fischer, l’artista svizzero trentottenne, che ora vive a New York, presenta a Venezia una serie di lavori realizzati dagli anni Novanta a oggi. Una retrospettiva che prende il via dalla ricostruzione del suo studio londinese, che battezzò Madame Fisscher, e questo bizzarro nome dell’atelier dà anche il titolo alla mostra.

Nel grande atrio d’ingresso, quattro pareti di legno senza soffitto racchiudono il cuore pulsante di tutto ciò che nei piani successivi gli gira attorno. Lo studio, in cui si entra in due alla volta, possiede quel caos sporco che è il giusto magma dalle cui immagini scaturiscono i lavori. Tante tele di varie dimensioni sono appoggiate o appese alle pareti. Un tavolo di legno dipinto con una scacchiera ospita una rozza testa in creta, e il mood del fatto-come-viene in cui il metodo sperimentale dell’artista si mischia con quell’interesse verso tutto ciò che organico, prosegue con una scultura di figura intera non finita, su tutto sembra appoggiarsi quella tipica patina polverosa da laboratorio.
Questo incipit di retrogusto quasi pop, che ricorda la ricostruzione dello studio di Paul McCarthy nella sua mostra milanese a Palazzo Citterio, contrasta con il resto dell’esibizione dove tutto è molto ordinato, quasi edulcorato.

Due chiodi giganti alla Oldenburg, di bronzo galvanizzato, danno il benvenuto al piano superiore, uno dritto e l’altro storto e da qua in poi di chiodi se ne vedranno molti, di varie dimensioni, anche dipinti su due grandi ritratti di Marilyn Monroe e Betty Davis. Indicano il collante che tiene insieme cose molto diverse tra loro, rappresentano l’energia del fare sedimentata nelle opere, accanto alla possibilità dell’ errore perché, sostiene Fischer «non sono un artista che vuole ottenere la compiutezza, per me è importante essere nell’azione».

Tra nuvole del 2005 e buchi volanti del 2006, nasi, bocche, orecchie appesi al soffitto con fil di ferro, si arriva alla sala dell’autoritratto che accoglie una statua di cera in dimensioni naturali. Seduto a un tavolo Urs Fischer, trasformato in enorme candela, guarda l’amico artista Rudolf Stingler in poltrona poco lontano. La fiamma è accesa e tutti e due lentamente si sciolgono, si consumano, si trasformano, messa in scena già sperimentata nella gigantesca installazione alla Biennale di Venezia di un anno fa, che sottolinea la caducità della vita, ma anche dell’opera di cui a François Pinault rimarrà solo la proprietà intellettuale.
Dai neon sostituiti con una carota, un cetriolo e un würstel del 2009, si passa a più recenti box di specchio di pistolettiana memoria su cui poggiano serigrafie di chiavi, calcolatori, mollette e altri oggetti comuni del 2012.

Una doppia sala centrale, propone piccole statuette di bronzo, realizzate con il suo maestro, al centro una modella nuda, sotto un fuoco di clic scatenatosi durante la preview, si muove e assume varie posizioni, come a proseguire l’azione contenuta nelle singole statuette, a loro volta precedenti copie dal vero.
Il percorso termina con una grassa palla rotante, dal titolo A light Sigh is The sound of my life che si può tradurre “un sospiro di luce è il suono della mia vita”, opera disturbante del 2000. Subito il pensiero corre alla tremula fiammella che inesorabilmente prosegue l’opera di disfacimento dell’artista e pensi che così procede la poetica di Fischer, attraverso opere sempre suggestive ma anche radicalmente diverse, dove le citazioni, i riferimenti abbondano e dove la vera forza sta in quel light sigh, che è l’energia dell’azione e del fare perenne. Forse dell’arte.
  
          

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