14 dicembre 2015

Lo shuttle, le galline e un viaggio impossibile

 
Dietro questi oggetti che Petrit Halilaj presenta all’HangarBicocca di Milano, si snoda il racconto di un migrante. Che è lui stesso. Senza sentimentalismi

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Cosa ci fa uno shuttle di legno parcheggiato nel cortile nell’HangarBicocca che di notte funziona come riparo delle galline, più scenografico in fotografia che dal vero, opera spiazzante dal titolo They are Lucky to be  Bourgeois Hens II (2009)?
Per qualcuno è inutile, per altri smuove processi mentali, riflessioni sulla nostra condizione di migranti, sul dramma esistenziale di rifugiati autentici, qui diventa un segno per tutti noi viaggiatori “emotivi” in transito tra la vita e la morte, sospesi tra realtà e immaginazione, tra la memoria e l’esodo e la ricerca di identità. Sappiamo che nell’arte contemporanea tutto è soggettivo e dipende da come la si guarda, dal contesto, ma questo razzo fanciullesco, dipinto all’interno blu Klein,abitato da galline costruito dal padre, e dai fratelli insieme a Petrit Halilaj (classe 1986) per la casa di Pristina, invita a sognare un nuovo mondo, un microcosmo tutto da inventare, proveniente dallo spazio.
Space Shuttle in the Garden (a cura di Roberta Tenconi, fino al 13 marzo) è la prima personale italiana dell’artista kosovaro, ex allievo di Alberto Garutti, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera (2008), che ha rappresentato il Kosovo nella sua prima partecipazione alla 55° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2013). 
Petrit Halilaj, Space Shuttle in the Garden, vista della mostra
Considerato tra gli artisti emergenti più interessanti della sua generazione “post-poverista”, Halilaj ha già esposto in prestigiosi musei internazionali. All’HangarBicocca narrano la storia di un kosovaro di etnia albanese e religione musulmana che a 13 anni fu costretto all’esodo forzato, come molti altri a causa della guerra del suo Paese negli anni’ 90. L’artista, dopo una permanenza in un campo profughi durata due mesi trova prima nel disegno e poi nell’arte una via per viaggiare tra memoria e realtà, avanti e indietro nel tempo. La sua condizione di esule, in seguito al bombardamento della casa paterna di campagna in Kosovo e alla ricostruzione di una nuova dimora a Pristina, e il passaggio dalla vita in campagna alla città, costituiscono erranze emotive che nel tempo si trasformano in un’attitudine creativa: un potenziale espressivo per opere capaci di raccontare poeticamente storie di migrazioni, cambiamenti geopolitici epocali, differenze culturali multietniche, personali punti di vista intorno al tema universale dell’identità. 
Petrit Halilaj, Space Shuttle in the Garden, vista della mostra
Una decina di opere (installazioni, sculture, video e disegni di grande e piccolo formato) esposte all’HangarBicocca realizzate nel corso degli anni, di cui la maggior parte sono inedite in Italia, altre concepite per la mostra milanese, danno forma alla sua biografia, dai ricordi dell’infanzia, ai luoghi dove ha vissuto, fino al rapporto con la famiglia. E poi l’incanto della natura, gli insetti, le farfalle, le tartarughe e gli uccelli e successivamente la vita in città, il tutto rielaborato in un personale “glossario visionario” in cui passato e presente sono gli ingredienti di un futuro possibile da reinventare all’insegna di una geografia incoerente, mescolando fiction e realtà. 
Così rovine a terra, travi bruciate, macerie di una casa distrutta, galline viventi incluse, la riproduzione in grande formato di gioielli della madre, un video poetico dedicato alle farfalle e altri semplici materiali diventano codice di un linguaggio non verbale, con installazioni complesse, anche non perfette, tutte soluzioni formali di spazi individuali, aperti alla collettività in cui idealmente convivono differenze culturali e religiose. 
Petrit Halilaj, Space Shuttle in the Garden, vista della mostra
Nello spazio espositivo denominato Shed dell’Hangar impressiona la monumentale ricostruzione della struttura portante della nuova casa di famiglia dell’artista a Pristina, ricostruita su scala reale in occasione della Biennale del 2010, una visione spettrale che evoca il senso della perdita, che però, come suggerisce anche il titolo The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real (2010-2015), non cede alla nostalgia o al sentimentalismo, ma al contrario dà forma a un luogo utopico in continua trasformazione. Tra questi e altri reperti, raccolte di cultura materiale come segno di vissuto, le opere più innovative non compilative e più mature, relazionali, sono una serie di sculture che si ispirano a uno strumento musicale a fiato di epoca neolitica rivenute in Kosovo a Runik, cittadina in cui Halilaj ha trascorso parte della sua infanzia. Questa selezione di strumenti a fiato sospesi su supporti esilissimi in ottone (molto “melottiani”), altri posati a terra come i sassolini di Pollicino, raccolti sotto il nome Okarina e Runikut (2014), prendono vita nel momento in cui un gruppo di visitatori o un singolo individuo li suona. Ma quando è un bambino a compiere questo semplice gesto e un misterioso, ancestrale suono si diffonde nell’Hangar, la speranza di un futuro migliore prende forma e qui si ode l’eco di desideri collettivi.
Jacqueline Ceresoli

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