29 luglio 2019

Maria Lai, oltre l’arte relazionale?

 
In mostra al MAXXI e a Cagliari, uno sguardo alla pratica dell’artista sarda seguendo una prospettiva storica e di “attraversamenti disciplinari”

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L’operazione Legarsi alla montagna di Maria Lai acquista notorietà internazionale presso il pubblico e la stampa dopo il passaggio alla Biennale di Venezia e a Documenta nel 2017. La ricerca sul web attraverso il titolo rivela sia il consistente numero di notizie dedicate oggi a Legarsi alla montagna, sia il tono spesso mitico delle cronache. L’Ansa del 18 giugno 2019 sulla mostra Tenendo per mano il sole al MAXXI chiude la notizia riportando che Legarsi alla montagna è considerata “il primo episodio di arte relazionale in Italia”. L’Ansa rilancia semplicemente una nota critica che trova ampia diffusione soprattutto dopo l’uscita nel 2017 della monografia a cura di Elena Pontiggia. “In Legarsi alla montagna”, scrive l’autrice, “Maria Lai è riuscita a anticipare di quasi due decenni (…) quello che Nicolas Bourriaud ha chiamato nel 1998 ‘arte relazionale’”. La macchina della comunicazione batte il punto, complici gli eventi internazionali e il risveglio del mercato attorno a Maria Lai. L’artista sarda precorre la definizione di successo del critico francese: riempie un poco di orgoglio? È così, anticipatrice? In che termini? L’attenzione pubblica su Maria Lai mi spinge a tornare sull’argomento per ripensare Legarsi alla montagna in una prospettiva storica. La trama dei collegamenti è così complessa che non è districabile compiutamente in questo testo ma tocco alcuni episodi, pensando che il richiamo a Bourriaud rischi di divenire un imbuto troppo stretto. Dalla seconda metà degli anni ottanta emerge una generazione di artisti italiani che si apre a forme collaborative e dialogiche, rimette in discussione il formato della mostra, propone modi documentali e processuali, attraversamenti disciplinari, sconfessa l’autoreferenzialità dell’opera d’arte per sondare incontri con la realtà, le persone, i contesti, si spinge a esplorare territori e sfere pubbliche (Gruppo di Piombino, Wurmkos, Emilio Fantin, Ceare Viel, Luca Vitone, Enzo Umbaca, tra gli altri). 
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Maria Lai. Tenendo per mano il sole | Photo © Musacchio, Ianniello & Pasqualini, courtesy Fondazione MAXXI
Queste posizioni inducono un cambiamento che influisce sulle generazioni successive e che ha punti di contatto con l’orizzonte internazionale che Bourriaud condenserà nel suo noto testo. Quando Emanuela De Cecco scrive nel 2002 che Maria Lai (nel catalogo della mostra al MAN di Nuoro Maria Lai. Come un gioco) “gioca d’anticipo su quella che nel decennio successivo è stata definita come arte della relazione”, il rimando va a questa generazione di artisti che è stata motore di una svolta ma anche agli ampi scenari globali cui si collega. Nel lavoro di Maria Lai ci sono gli ingredienti di un’arte della relazione: Legarsi alla montagna anticipa e declina i punti genericamente sopra elencati. In più, il ripensamento dei luoghi del vivere è un’indicazione che fa da ponte con la generazione anni novanta, che non proporrà più modelli esemplari investiti di istanze di rinnovamento sociale ma microsituazioni capaci di spostamenti nella prossimità. Rimane da indagare se e come gli artisti italiani manifestino una specificità rispetto alla scena internazionale, non per rafforzare presupposte identità nazionali ma per comprendere i nessi con il contesto sociopolitico e culturale del paese negli anni novanta, attraversato da forti trasformazioni. Rispetto all’opera degli artisti con cui Bourriaud intrattiene un dialogo (Liam Gillick, Rirkrit Tiravanija, Dominique Gonzalez-Foerster, ad esempio), in quella di Maria Lai c’è una matrice diversa, a parte l’assunto di base di “un’arte che assume come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale”, ma vero è che il critico ne fa una teoria non normativa. L’operazione di Maria Lai fa maturare anche altri problemi, però, che saranno decisivi sul piano internazionale negli anni novanta, a cui Bourriaud non sembra interessato nel 1998 (e per questo sarà pure criticato). A questa data, il suo schema teorico non accoglie le argomentazioni che arrivano dagli studi postcoloniali e di genere sulla formazione delle identità “minoritarie” e “periferiche” (che possono suggerire ulteriori strumenti di lettura dell’opera di Maria Lai, anche in merito alla “relazionalità”), si disinteressa di quella antropologica e non rende davvero problematica l’idea di comunità, e comunque la forma-mostra rimane centrale nella sua analisi. Come Roberto Pinto mette in luce, inoltre, Bourriaud non considera le esperienze elaborate negli Stati Uniti che interrogano la natura politica della pratica artistica per provare cosa significano sul campo, nella sfera sociale della città, parole come comunità, identità e località, intrecciando discorso urbano, ecologico e storia minoritaria. Non a caso Suzanne Lacy preferisce il termine engagement e Mary Jane Jacob quello di contextual art. Sono altre sintonie. Il rapporto con la cultura popolare, materiale, orale e con il luogo, la ritualità, la sacralità e la memoria, sono dimensioni che Maria Lai recupera con un approccio critico e che sono accuratamente affrontate dalla storiografia fino alla citata monografia, definendo un frame per Legarsi alla montagna che inevitabilmente forza gli argini dell’esthétique relationnelle. 
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Maria Lai. Tenendo per mano il sole | Photo © Musacchio, Ianniello & Pasqualini, courtesy Fondazione MAXXI
La natura antropologica e politica dell’opera di Maria Lai la rende anche altro, il modo in cui è politica, la scelta di optare per un decentramento spazio-temporale che crea cortocircuiti tra tradizione/modernità, rimettendone in discussione la binarietà, le categorie, il modo in cui avviene il recupero di un patrimonio “minore” per trovare una lingua che si fa comunitaria, per il presente. Inoltre, la parola “partecipazione” che Filiberto Menna (in un articolo pubblicato su Paese Sera nel 1982) spende in un momento storico che l’aveva cancellata, l’inizio degli anni ottanta, porta a guardare indietro verso le pratiche artistiche cooperative e partecipative degli anni sessanta-settanta. Anche se Maria Lai non si vive dentro questa storia, vanno tenuti in considerazione due aspetti. L’espressione “partecipazione” richiama altre condizioni: città, cittadinanza, bene comune. Legarsi alla montagna parla di cittadinanza. Anche per questo è attuale. Le parole illuminanti di Silvano Tagliagambe avvertono che a Ulassai “il paese non è più soltanto uno spazio fisico fatto di dettagli e di misure, ma diventa un luogo nel quale s’innesta (…) il tempo. Il tempo come passato comune e come memoria collettiva, e il tempo come futuro, come anticipazione, come progetto condiviso”, e chiedono “come realizzare politicamente quello spazio delle relazioni che Maria Lai ha materializzato e reso visibili con i suoi nastri” (Silvano Tagliagambe, La politica alta cammina in un intreccio di fili colorati).
 La seconda trama porta alla questione dalla portata politica per lo sviluppo rapido (e rapace) dell’Italia nel secondo dopoguerra, il rapporto con la condizione antropologica del territorio, che occupa il pensiero di artisti, urbanisti, intellettuali. L’artista “nel sociale” ha la “possibilità di attingere risarciti patrimoni di cultura materiale, realtà antropologiche”, per rinnovare “cognizioni e strumenti del proprio specifico”, per riconoscere “la forza dello stesso patrimonio storico, soprattutto nella possibilità di renderlo partecipabile, e cioè di farne strumento attivo di crescita culturale e sociale, e quindi politica” (Enrico Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale). 
Enrico Crispolti non lo scrive di Maria Lai. Ha in mente altri autori tra cui Riccardo Dalisi, ma sono fili, appunto, che da Legarsi alla montagna portano avanti e indietro nella storia, fino alle urgenze del presente.
Alessandra Pioselli

Alessandra Pioselli è critica d’arte, curatrice, autrice di saggi e dal 2010 direttrice dell’Accademia Carrara di Bergamo

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