06 dicembre 2014

Segantini, frontaliere del mondo

 
La grande mostra di Milano celebra una delle figure più fulminee e ombrose della storia dell’arte moderna. Lo leggiamo con la sua luce e i suoi paesaggi

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Bella scommessa per Palazzo Reale, e per il main sponsor Skira, associare in due mostre le  figure diametralmente opposte di Marc Chagall e Giovanni Segantini. Della prima mostra vi abbiamo già raccontato, ma ci sono una serie di elementi “comuni” tra i due pittori assolutamente imprescindibili. Prima di tutto il fatto di essere apolidi, erranti. Segantini, con Chagall, ha in comune un triangolo di spostamenti: mentre il pittore russo faceva tappa a Parigi e New York e poi nel sud  della Francia, Segantini compie tragitti più brevi, ma che determineranno per sempre la propria carriera e la vita. 
Nato ad Arco in Trentino, nel 1858, a sette anni il piccolo Giovanni lascia i monti per Milano, dove vi passa quasi vent’anni, spostandosi poi successivamente in Brianza e in Engadina, dove ritroverà le montagne del paese natale. 
SEGANTINI, Costume grigionese (ritratto di Barbara Huffer), 1887 olio su tela, 54 x 79 cm St. Moritz, Museo Segantini, deposito della Fondazione Otto Fischbacher - Giovanni Segantini
Una vita brevissima quella del pittore, che scomparirà nel 1899 a soli 41 anni, ma che brucia in un soffio anche tutte le “tappe” delle tendenze dell’arte di quel periodo con un corpus pittorico che a Palazzo Reale trova il suo più pieno compimento. È un’arte di pura luce quella di Segantini, che talvolta sembra guardare alle atmosfere di Caravaggio, alle forme complesse di Mantegna, e che all’inizio degli anni ’90 dell’ 800 aprirà la sua tavolozza pittorica a uno spettro soleggiato, dalla prospettiva centrale, con Mezzogiorno sulle Alpi, in quello che si fa ricondurre ad un anticipo Divisionista a pochi mesi dall’esposizione de Le due madri alla Triennale di Milano.
Gli anticipi della luce, però, sono almeno di un decennio prima. Lo dimostrano tele come Il coro della chiesa di Sant’Antonio Abate in Milano, 1879, realizzato quando Segantini aveva appena 21 anni, dove la grande finestra nell’area alta alla sinistra del dipinto, quasi a fuoriuscire dalla tela, fa da scenario e cassa di risonanza per il mantello bianco del chierichetto e per la stola rossa del leggio, posizionati nella stessa angolazione nella parte bassa. Tutt’intorno si diffonde un’aura mistica, che ricorda il grande raggio che filtrava sulla Conversione di San Paolo di Caravaggio. Un’opera emblematica, lontana dalle forme dell’Impressionismo che si era sviluppato a partire dal decennio precedente e che iniziava a far sentire i suoi echi anche in Italia, e più vicina allo “studio” di un giovane pittore affascinato dalla forma, dalla volontà di riscrivere la pittura d’interno (che nella produzione di Segantini non sarà abbondante). 
SEGANTINI, La raccolta dei bozzoli, 1881-1883 olio su tela, 70 x 101 cm Milano, Collezione Intesa Sanpaolo, Gallerie d'Italia - Piazza Scala
Quattro anni dopo, siamo nel 1882-83, un’altra finestra farà capolino da un dipinto di stampo più “sociale”, intitolato I pittori dell’oggi. Stavolta la scena è più buia, e il protagonista è il torso di un Cristo in carne e ossa “appeso” a una croce nello studio di un artista. La luce filtra, ma in questo caso sono alcuni particolari ad essere illuminati, non a caso: i volti dei protagonisti indaffarati sulla tela, quasi a discutere, il costato del modello, gli scalini del treppiedi che portano al “calvario”, un tavolinetto apparecchiato di colori. Una scena povera di meta-rappresentazione, dove lo stesso pittore guarda tra gli affari dei colleghi, intenti a fare quella “rivoluzione” che Emile Zola aveva descritto nel 1886, con L’opera e la disgraziata vita del pittore Claude Lantier, talmente “vittima” della propria arte e della smania per l’affermazione del sé da non poter resistere al dipingere nemmeno di fronte alla morte del piccolo figlio.
Sono d’altronde gli anni in cui non solo a Parigi, ma anche a Milano, si va cercando un nuovo “codice estetico”, incalzati appunto dall’Impressionismo, sopraffatti dal Realismo e vicini alla temperatura tiepida della Scapigliatura, la penultima avanguardia italiana prima del Futurismo, decisamente meno fortunata, anche nei libri di storia dell’arte. Per Segantini l’approdo a Milano, città “moderna” e mai dimenticata nemmeno durante gli anni del suo esilio svizzero, era la galleria del nobile pittore, incisore e critico Vittore Grubicy de Dragon, con il quale nel 1883 firma un contratto di esclusiva vero e proprio.
 
SEGANTINI, Dopo il temporale, 1883-1885 olio e tempera su tela, 180 x 123 cm Collezione privata
L’apertura della “finestra” a tutto campo, en plen air, è dello stesso anno: Dopo il temporale, anche se osservando il dipinto sembra invece che il maltempo stia precipitando sui protagonisti, apre la pittura di Segantini al tema del paesaggio in via definitiva, con le scene di pascoli, bestiame, contadini e vita rurale di montagna che lo renderanno celebre in tutto il mondo.
Anche in questo caso il Divisionismo è alle porte, con l’inquietante colore del cielo che si riflette sul mantello delle pecore tenute a bada dal pastore e nelle pozzanghere di un prato verdissimo. C’è, in tutti i casi, il serpeggiare di un alone di inquietudine, come ne L’ultima fatica del giorno del 1884. Il cielo è lo stesso de Dopo il temporale, latteo all’orizzonte e cupo sulla volta, e anche se il tema in questo caso è il febbrile lavoro nei campi, non si può negare in trasparenza una sorta di spleen leopardiano, che aveva scritto Il sabato del villaggio poche decine d’anni prima, nel 1829, durante il suo ultimo periodo a Recanati.
Il lavoro sul Divisionismo si completa nel 1896, con Pascoli di Primavera, una rivisitazione di Mezzogiorno sulle Alpi, dove la figura umana scompare lasciando posto agli animali, e all’ultimo Le due madri, del 1899-1900, meno famoso di quella celebre “natività” dello stesso anno conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dove alla donna con il piccolo figlio in braccio sono associati ancora una volta una pecora e il suo agnello.
Attraverso questa luce, devota nei confronti della vita, è forse possibile scoprire qualcosa in più di questo artista che si definiva “orso della montagna” che sapeva guardare il mondo, nonostante i suoi pochi spostamenti geografici, con gli occhi del vero frontaliere. Sospeso tra tradizione e avanguardia, dove il bucolico si incontrava con l’ombra scura della vita. 

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