08 marzo 2016

Specchio dei miei incubi, chi è più vero del reale?

 
Un mostra a Berlino si snoda tra arte e scienza per mettere a fuoco il potere disgregativo dell’illusione. Capace di suggerire al cervello una realtà diversa da quella reale

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Entro il secondo anno di vita impariamo a riconoscere la nostra immagine allo specchio e comprendiamo il concetto fisico della riflessione, cioè prendiamo coscienza di noi stessi e arriviamo a posizionarci secondo coordinate soggettive e intersoggettive. Ma c’è un enigma in quell’attimo di esitazione e di disorientamento che viviamo ogni volta in cui scorgiamo la nostra immagine, cioè quando il soggetto osservante comprende di essere in egual misura anche l’oggetto osservato. I neuroscienziati lo chiamano disembodiment perché rispecchia un processo cognitivo secondo il quale oltrepassiamo i confini fisici del nostro corpo proiettandone le caratteristiche su entità esterne. Proprio in quell’istante succede infatti che la nostra capacità di stabilire la posizione e i limiti corporei nello spazio – propriocezione – perde la nitidezza abituale e incomincia a sfumare. 
Osservazioni e studi di artisti e neuro scienziati che puntano da alcuni anni l’attenzione su quell’attimo di smarrimento e lo prolungano per esaminare lo spazio che separa la persona dal suo riflesso,  sono il tema di una ricerca durata oltre tre anni per una mostra di particolare interesse nei contenuti e nelle sedi espositive scelte: “Mirror Images” a cura di Alessandra Pace, con la consulenza del neuroscienziato Andrew Wold e con i contributi di Henrik Ehrsson (Istituto Karolinska, Stoccolma),Vittorio Gallese (Università di Parma), Vilayanur Ramachandran (Università di San Diego, California) allestita al museo Charité di storia della medicina e nel project space della Fondazione Schering, entrambe a Berlino fino al 3 aprile.
Vista della mostra
La mostra accoglie in prevalenza di opere di artisti contemporanei, ma anche esperimenti scientifici e curiosità che prendono spunto da specchi, superfici riflettenti e altri strumenti. Opere e manufatti, inseriti nella propria prospettiva disciplinare che restituiscono al visitatore un’esperienza di grande interesse garantendo una riflessione (in senso mentale e fisico) capace di stimolare percorsi critici e di scoperta ma anche di partecipazione, stupore e curiosità senza mai scivolare nell’enigma di una contemporaneità anticipatrice e misterica o nell’ovvietà del progetto propedeutico.
Come nel caso di alcuni lavori di Dan Graham e Vito Acconci, pionieri nella decostruzione della fenomenologia della visione già nei primissimi anni ’70 quando iniziano a invertire i ruoli fra spettatore e artista con opere video o installazioni multimediali; nelle fotografie di William Anastasi, nelle sculture doppie di Jorge Macchi, nelle ricerche sulla somiglianza di Marta Dell’Angelo, quelle sul verso di John Baldessari, nella grande installazione di Carla Guagliardi o nella serie fotografica di Sabina Grasso che usa l’autoscatto fotografico come terapia contro gli attacchi di panico. Ma anche nella grande installazione appositamente commissionata e site specific di Otavio Schipper e Sergio Krakowski (Fondazione Shering) dove luce, suono, onde e riflessioni ci immergono per oltre 20 minuti in una dimensione di straniamento fuori e dentro la storia, la realtà percepita, quella riflessa e quella vissuta. 
DER Sabina, Sassi, 2006-2009 06
 Otto stampe digitali C-Prints 25,2 x 44,9 (incorniciato: 33 x 53) © DER Sabina / Courtesy: DER Sabina
Nell’insieme un’accurata selezione di opere che testimonia una ricerca gemella tra arte e scienza e oltrepassa l’evocazione semantica tipica dell’arte, cioè quella dimensione che va al di la dell’oggetto presentato ed è in grado di trasformare la superficie di un dipinto o lo schermo di un video in una soglia metaforica.  Nella stessa direzione si trova in mostra un’accurata selezione di curiosità storiche raccolte nei musei di medicina di tutta Europa (alcuni dei quali di stupefacente e terrificante bellezza) e soprattutto strumenti (da vedersi e da provarsi) di esperimenti scientifici come quelli basati sulla ricerca di alcuni neurologi comportamentali che, per sviare le nostre coordinate, lavorano sulle illusioni ottiche per interferire sulle nostre percezioni tattili. Tra questi ultimi, quelli oggi utilizzati per indagare effetti e conseguenze nell’utilizzo di sistemi di realtà virtuale o usati per ragioni terapeutiche, come per il trattamento del dolore dell’artofantasma (terapia messa a punto da Ramachandran al Walter Reed Military Hospital, sperimentabile in mostra grazie alla presenza del marchingegno). Tale dolore, in passato alleviato con farmaci o tramite interventi chirurgici, è infatti oggi curato con l’aiuto di uno specchio: riflettendo l’immagine della parte sana del corpo nella posizione dell’arto mancante, genera nel paziente l’illusione ottica che il suo corpo sia intatto così che il cervello cessa di dare segnali d’allarme e il dolore si placa. Questo semplice ma efficace esempio, così come l’opera di Dan Graham, Opposing mirrors and video monitors on time delay (1974/1993) fanno di “Mirror Images” una mostra nella quale viene data forma all’illusione e al suo potere disgregativo sulla rappresentazione, solo apparentemente innata e inalienabile, del nostro corpo. 
Paola Tognon

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