04 dicembre 2014

Una magnifica annata

 
Alla Peggy Guggenheim di Venezia rivive una luminosa stagione culturale. Radicale, abitata da grandi talenti, azzardi e invenzioni

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Visitando “Azimut/h. Continuità e nuovo”, esposizione visibile alla veneziana Collezione Peggy Guggenheim fino al prossimo 19 gennaio, si ha la netta impressione di calarsi in un clima culturale ben delineato, di trovarsi di fronte a un atteggiamento estetico storicamente connotato, di vivere da vicino un momento fondativo, un grado-zero dell’esperienza artistica, sul quale convergono gli sforzi di soggetti solo apparentemente estranei gli uni agli altri, le istanze estetiche di respiro internazionale solo apparentemente distanti fra loro, il tutto risultando collocabile in un preciso luogo geografico. Ebbene, il clima culturale e l’atteggiamento estetico sono quelli di un radicalismo che si annida nelle pieghe del cosiddetto miracolo economico italiano, radicalismo che trova linfa vitale per pungere criticamente all’interno dello stesso boom, forse proprio contro di esso, e nel quale agiscono come vere cartine di tornasole intellettuali ed artisti dotati di straordinaria lucidità, figure che si incontrano, pubblicano riviste, firmano manifesti, si raccolgono in sodalizi, in movimenti geograficamente distanti fra loro, che in Italia prendono il nome di scarne suggestioni geometrico-matematiche, come appunto Azimut,  – la verticale sopra un punto qualsiasi della superficie terrestre, scrive Castellani -, oppure fanno ricorso all’anonimato di una lettera (T, N) o, in Germania e in Olanda, di un numero, di un’entità votati alla negazione (Zero, Nul), oppure, in Francia, alla pratica essenzialità di gesti e atteggiamenti an(ti)-intellettuali (Nouveau realisme). 
Azimuth, vista della mostra, Peggy Guggenheim, Venezia
Esperienze europee che tuttavia vengono ben presto convogliate all’interno di uno spazio urbano, la Milano di fine Anni Cinquanta, che a sua volta riflette la luce di altre capitali artistiche del mondo. Alcuni degli artisti attivi allora hanno bisogno di esegeti, di numi tutelari (Pierre Restany, ad esempio), altri no, si limitano a farsi accompagnare da un più anziano compagno di strada, che riconoscono con tutta l’evidenza dell’evento naturale in Lucio Fontana. E proprio da Fontana e dalla tabula rasa del Manifesto blanco quel radicalismo linguistico ed estetico non poteva non prendere le mosse. Lui torna in Italia dopo la guerra, scopre il suo studio milanese distrutto dai bombardamenti, e allora riconosce nella stessa esperienza vissuta l’inevitabilità di una presa di posizione radicale, che riparte ab imis fundamentis, e che, in quanto tale, si fa modello di comportamento per una (e più) generazioni d’artisti a venire. Primi fra tutti due giovani lombardi, Enrico Castellani e Piero Manzoni, senza dubbio protagonisti di questa stagione. Nell’esposizione veneziana Lucio Fontana è ben presente, campeggia nella prima sala insieme ad altri testimoni italiani (Burri, Bonalumi) e stranieri (Klein, Tinguely, Johns, Rauschenberg), lo si sente aleggiare su Azimut/h, e lo è fisicamente con due esemplificazioni, un’opera e un gesto, assolutamente esemplari. L’opera è del ’58, un double-face: una carta telata e “tagliuzzata” dove è scritto a mano in inchiostro blu sul fronte “Io sono un santo”, rosso sul retro “Io sono una carogna”. Qui c’è già tutto Manzoni, estro, gestualità dissacrante; ma c’è pure tutto Castellani, speculazione, determinazione di una inscalfibile vettorialità tematica. Il gesto (di Fontana), quasi commovente, è l’acquisto nel ’59 di una Superficie di Castellani -“la prima opera che ho venduto”, dirà poi il suo autore -: un’estroflessione grigio-fumo, ormai vissuta, testimonianza di fiducia e, ad un tempo, di “continuità” e “nuovo”, termini che lo stesso Castellani adoperò come titolo per un importante testo teorico apparso sul secondo numero di Azimuth (la rivista, termometro di una stagione brevissima, dal settembre ’57 al luglio ’58, mentre Azimut era lo spazio espositivo situato fra Via Clerici e Via dei Bossi, nel cuore di Milano). Gli stessi termini che Luca Massimo Barbero utilizza come parte integrante del titolo di questa esposizione veneziana, di cui è curatore – e Associate Curator della Collezione – che raccoglie opere in parte rese disponibili dalla Fondazione Manzoni e dallo stesso Castellani.
Azimuth, vista della mostra, Peggy Guggenheim, Venezia
Impressione netta, si diceva. Ma non fatta di languori, non la “petite madeleine” che spinge a ricordare i bei tempi di una Milano da vivere ben prima che “da-bere”. E questo per due ragioni sostanziali. La prima è che, sia per la forza inossidabile dei contenuti che per la seduzione puramente estetica, le settantasette opere esposte e tutto il corredo documentale presentato veicolano, quasi fossero esse stesse testimoni viventi, più che testimonianze, un contesto storicamente acquisito ma ancora di fortissimo impatto. La seconda sta nel fatto che, proprio perché ciò che si vede, si ascolta e si sente nelle sei sale situate oltre il bar-ristorante della Fondazione, a destra entrando e di fronte alla collezione Mattioli, ha questa forza inossidabile, si trova riverberato nelle stagioni artistiche di cui Azimut/h ha fatto da apripista. 
E, quasi a voler testimoniare l’impossibilità di collocare nella storia qualunque tipo di temperie creativa negandone rapporti di provenienza e, in una successiva fase storica, di discendenza, non casuale risulta il richiamo a una bellissima osservazione di Piet Mondrian riportata da Antoon Melissen nel suo contributo in catalogo: “L’opera non è altro che la semantica del linguaggio visivo personale”. Così come da Azimut/h e compagni prenderanno le mosse taluni paradigmi dell’Arte Povera, dall’uso dei materiali di consumo – i chiodi per le estroflessioni di Castellani usati in modo differente dal coevo Günther Uecker, gli specchi di Pistoletto come possibile filiazione da esperienze similari di Christian Megart, testimoniate in mostra; o, perché no?, l’ironico pseudo-naturalismo delle michette di Piero Manzoni sbiancate nel caolino, matrigne dei “tappeti-natura” in poliuretano espanso di un altro Piero, il Gilardi.
Azimuth, vista della mostra, Peggy Guggenheim, Venezia
Tardive saranno le estroflessioni di un Turi Simeti, rispetto ai marchi di fabbrica di Castellani, o a quelli, seguiti a ruota, di Agostino Bonalumi, quest’ultimo, sodàle milanese, giustamente rappresentato in mostra. E allora, per non far torti, oltre che per coerenza storiografica, vengono associati all’illustre “coppia allargata” anche i milanesi Colombo Anselmo Varisco Dadamaino del Gruppo T, o i veneti Biasi Massironi Boriani del Gruppo N, senza dimenticare l’importante presenza “aniconica” di Vincenzo Agnetti. Forse si sarebbero potuti aggiungere, “continuità” su questo “nuovo”, i segni lasciati sull’avvio radicale, di fine anni ’60, dell’Arte Analitica, in specie nei lavori di Griffa Gastini e Cotani, prima che il colore e riapparisse, dilavato nella sua destrutturazione, su tele e tessuti di questi ultimi? Segni tuttavia non presenti in mostra. Presenti invece le testimonianze internazionali: la Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo, legato a Leo Castelli, porta a Milano le vicende di Jackson Pollock, Jasper Johns, Bob Rauschenberg e Cy Twombly. Poi quelle tedesche del Gruppo Zero, il citato Uecker con Heinz Mack e Otto Piene, e quelle dei francesi Morellet e Mavignier: alfieri di una “poetica dell’azzeramento” – bella definizione riportata da Francesca Pola in catalogo – in Italia declinata in duplice direzione: da una parte, quella dell’assenza o sottrazione, oltre che dalle estroflessioni di Castellani e Bonalumi, per esempio dai Volumi di Dadamaino; o della metonìmia simbolico-feticistica dei materiali, partendo, a caso, dalla manzoniana Merda d’artista. L’altra direzione, quella della monocromia (l’International Klein Blu), all’acromia del bianco, ancora manzoniana. 
Azimuth, vista della mostra, Peggy Guggenheim, Venezia
Una sola pecca, forse evitabile, forse no: sale sovraccariche. In effetti le carezzanti, lattiginose “variazioni sul bianco” – per citare un suggestivo titolo sciarriniano – che accolgono pervadendoli, quasi un chroma placentare, la visitatrice e il visitatore sono scotto da pagare per una mostra che intende ambiziosamente coniugare il tentativo, completamente riuscito, di far rivivere, le impressioni/sensazioni di cui sopra, altresì provando, senza completamente riuscirvi, a tener lontana la sensazione di horror vacui.
Lo si è citato più volte in precedenza. Come in ogni esposizione che si rispetti, il catalogo è parte integrante della mostra stessa, supporto essenziale per approfondimenti proiettati a lungo termine. Qui lo sforzo è esemplare e rimarchevole: un volume di 648 pagine edito da Marsilio, con robusti contributi, oltre che del curatore, che chiarisce i criteri della scelta e presenta le opere, di Francesca Pola e Antoon Melissen, che mettono in luce i risvolti storico-estetici del fenomeno, e belle puntualizzazioni sui due protagonisti di Federico Sardella, curatore dell’Archivio Castellani, e Flaminio Gualdoni, che di Manzoni aveva curato l’esposizione di Palazzo Reale e che ben “spiega” la Merda d’artista anche per i miliardi di esseri umani nel mondo che tutto credono di saperne. E con la preziosissima riproduzione degli originali di periodici dell’epoca, tra cui i due numeri di Azimuth, cosa che permette di leggere oltre ai testi di Manzoni e Castellani, per esempio il primo contributo monografico su Fontana, a firma di Guido Ballo, il bel testo “Comunicazione” e “consumo” nell’arte d’oggi di Gillo Dorfles, o quelli di tre allora “giovani” compositori, Luciano Berio, Aldo Clementi, Vittorio Fellegara, oggi ormai entrati nella storia della musica contemporanea, con contributi vividi per brillantezza intellettuale, ancora una volta autentiche istantanee del tempo d’allora, visto nei rapporti fra arti visuali e musica.
Luigi Abbate

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