26 aprile 2016

ALLONS ENFANT/21

 
Niccolò Benetton e Simone Santilli, ovvero The Cool Couple, in un nuovo focus sui giovani artisti italiani.
di Andrea Bruciati

di

Nei tardi anni ’90, lo psicologo Daniel Simons e il suo studente Christopher Chabris hanno concepito quello che sarebbe divenuto un famoso esperimento: un test video conosciuto come “il gorilla invisibile” (Chabris and Simons, 2010). Ai partecipanti allo studio veniva chiesto di guardare un video e contare il numero di volte in cui i giocatori della squadra che indossa la divisa bianca si passano la palla da basket tra loro, mentre giocano contro una squadra in divisa nera. Mentre l’azione, apparentemente semplice, si svolge, l’inquadratura viene attraversata da una persona che indossa un costume da gorilla. Circa metà delle persone sottoposte al test non notavano la presenza del gorilla. Essi erano concentrati sul conteggio. Simons attribuisce questo a ciò che egli chiama “cecità disattentiva”, l’inabilità di percepire informazioni non contestuali quando si è concentrati su un compito. 
The sleight of the hand deceives the eye, in Nicholas Mirzoeff, How to see the world, Pelican books, Londra 2015, pp.77- 78

Come ravvisate una Inattentional blindness (cecità disattentiva) nei vostri lavori?
«Mirzoeff presenta questo esperimento come esempio della discrepanza tra l’evoluzione biologica della visione e la sua incredibile capacità di adattamento ai mutamenti nel contesto di vita di un individuo o di una comunità. È particolarmente interessato al fatto che in poco meno di una generazione ci siamo abituati a sviluppare una visione periferica e una mentalità multitasking, che permette di contare i passaggi tra i giocatori nella squadra bianca e vedere il gorilla attraversare l’inquadratura, il tutto con una certa disinvoltura. Il concetto di inattentional blindness è fondamentale perché, multitasking significa anche meno concentrazione in ogni singolo compito. Secondo Mirzoeff, infatti, è importante capire cosa viene iper-visualizzato e cosa invece viene eclissato. Visibilità e non visibilità permettono l’esercizio del potere al giorno d’oggi. In questo, Mirzoeff è in linea con Jacques Ranciére, che, parlando del Rwanda Project di Alfredo Jaar, precisava che il problema oggi non è orientarsi in un flusso travolgente di immagini, ma essere consapevoli che all’origine di questo flusso è possibile un atto di rimozione. La nostra ricerca si basa in gran parte sulle questioni della cultura visuale e tali problematiche si ritrovano in diverse forme nei nostri progetti, che nascono da un interesse verso i processi di produzione, disseminazione e consunzione delle rappresentazioni collettive».

Approximation to the West, Never Trust the West Again, 2014. Poster, 70x100 cm

Ritenete che solo attraverso un processo “citazionistico” si possa creare?
«Per quanto riguarda il citazionismo, non siamo nella posizione per esprimere giudizi di valore. Crediamo che non si possa parlare in termini assoluti ed esclusivi: non è l’unica strada o un approccio migliore di altri: è una risorsa tra le tante a tua disposizione, che richiede probabilmente una fase di studio a priori così che le fonti siano visibili (o che le si possa consapevolmente nascondere), la cui efficacia varia a seconda del progetto. In senso più ampio, si porrebbe il problema di quanto è citazione inconsapevole o meno, cioè di quanto siamo influenzati dalle migliaia di immagini che fruiamo quotidianamente. Forse ormai non costituisce più un problema. Giusto per rimanere in tema, ecco un’altra citazione, di Jim Jarmusch: “Nothing is original. Steal from anywhere that resonates with inspiration or fuels your imagination. Devour old films, new films, music, books, paintings, photographs, poems, dreams, random conversations, architecture, bridges, street signs, trees, clouds, bodies of water, light and shadows. Select only things to steal from that speak directly to your soul. If you do this, your work (and theft) will be authentic. Authenticity is invaluable; originality is non-existent”. MovieMaker Magazine #53″ – Winter, January 22, 2004».
Da dove nasce la vostra dizione “Cool”?
«Abbiamo optato per “cool” perché, quando abbiamo fondato il duo, ci pareva riassumere molti aspetti del nostro modus operandi: dall’approccio alle tematiche. Cool è un termine bannato dal mondo dell’arte, è quel commento particolarmente ignorante eppure spontaneo. Gran parte della nostra ricerca si articola attorno a due elementi: l’ironia e le dinamiche quotidiane che persone e collettività generano interagendo con l’immaginario. Si tratta di un bacino ricolmo di spunti, ma che si allontana da canoni colti e attraversa un’infinità di registri».

Approximation to the West, Drava Creek, Lienz #001, 2015. Stampa a getto d’inchiostro su carta fine art, cornice in legno, plexiglass, 100x140 cm.

La vostra formazione.
«Niccolò ha studiato filosofia presso l’Università degli Studi di Bologna, mentre Simone ha studiato Arti Visive allo IUAV di Venezia. Ci siamo incontrati alla Fondazione Forma di Milano nel 2011, quando abbiamo frequentato il master in Fotografia e Visual Design. Abbiamo seguito anche diversi workshop, ma sono dei corollari».
Chi avete incontrato e quali sono stati gli incontri, gli scambi per voi importanti?

Niccolò Benetton: «Ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia e contemporaneamente all’arte, durante in miei studi in filosofia. Sono sempre stato incuriosito dai “mondi” che utilizzano codici e linguaggi che non riuscivo a decifrare. Tra le mostre che ho avuto occasione di visitare in questi anni, di un paio conservo un ricordo limpido. “Realtà manipolate” al CCC la Strozzina e “From here on” al festival Les rencontres d’Arles. La prima analizzava il tema della manipolazione e della ricostruzione della realtà tramite l’immagine fotografica e video, mentre la seconda indagava come e in che direzione l’immagine e la fotografia stessero andando (presente anche Thomas Mailaender, con il quale in seguito ho avuto il piacere di poter lavorare) pur non utilizzando mai il mezzo in maniera canonica».
Simone Santilli: «Tra le tante occasioni di scambio e crescita, il periodo in cui ho lavorato come assistente presso lo studio di Francesco Jodice è stato la mia prima “palestra”. Poter seguire il lavoro di un artista affermato è stata un’occasione di apprendimento in cui ho toccato con mano molti aspetti del mondo dell’arte che si possono sperimentare solo sul campo. Inoltre, Francesco è un ottimo insegnante: i suoi consigli e le sue critiche mi sono stati utilissimi per capire di cosa volevo occuparmi e per sviluppare un’adeguata pratica progettuale».
A kind of display, Ruler, 2015. Stampa 3D, Monumental, 55x25x22 cm
Le modalità di scambio nella costituzione di un’opera: vi è cioè un criterio o persistono diversi percorsi nel vostro arrivare alla formulazione e realizzazione del lavoro ultimativo?
«Le dinamiche che portano alla realizzazione di un’opera sono varie e non abbiamo mai seguito un iter precostituito. Lo spunto iniziale può nascere da un’esperienza comune, da una lettura individuale o semplicemente da una chiacchierata. La costante risiede nella dialettica che immediatamente si innesca e ci porta a sviluppare una ricerca approfondita la cui durata è molto variabile (in alcuni casi si è trattato di anni). Contemporaneamente attuiamo un processo di verifica che non ci permetta di perderci nell’entusiasmo o all’interno della ricerca stessa che spesso rischia di non avere una fine. Quando l’idea iniziale si è sufficientemente articolata su delle basi solide, la rete di concetti che otteniamo viene formalizzata. La formalizzazione dell’opera implica un’analisi dei dispositivi linguistici a nostra disposizione e delle modalità installative che il lavoro può assumere. Durante tutto il processo lavoriamo in team, senza una precisa distinzione di ruoli ma in assoluta simbiosi».
Linguisticamente vi sono due media che preferite, fotografie e video.
«Ci siamo formati in fotografia e video. Le problematiche connesse a questi linguaggi e la loro pervasività nella società contemporanea hanno sempre rappresentato un tema affascinante. Tuttavia, sono due dispositivi che evolvono rapidamente e sono sottoposti a una continua mutazione, pertanto, quando abbiamo iniziato la nostra ricerca, eravamo consci che uno dei problemi principali consisteva nel capire quali erano i limiti della fotografia o del video».

Cool People Love Poodles, 2014

Ritenete che i vostri lavori possano definirsi per certi versi sociali o politici?
«Non lo pensiamo nella misura in cui potrebbero essere ricondotti all’arte politica o sociale. I contenuti spesso riguardano questioni di geopolitica, ma non è fondamentale che la nostra posizione emerga; ciò che ci stimola invece è il potenziale insito nell’insinuare un dubbio o nel porre delle domande: ciò che sta mutando in questa epoca è l’idea dello spirito critico. Siamo molto precisi riguardo ai nostri bisogni, perché la società in cui viviamo si basa su una specializzazione del desiderio. Sentiamo il termine sociale quasi come sinonimo di politico e di conseguenza, se abbandoniamo la definizione classica di arte sociale, potremmo dire che sì, nella misura in cui trattiamo tematiche politiche, parliamo anche di sociale. Basti pensare al nostro lavoro Approximation to the west che prende le mosse dall’analisi di una vicenda storica riguardante la seconda guerra mondiale. Il progetto in cui tutto questo è più evidente è sicuramente Cool people love poddles quale abbiamo accennato ad un esempio paradossale di influenza che Berlusconi riesce ad esercitare nei confronti del suo elettorato medio».
The Cool Couple: Pensi che sia possibile fare arte politica in Italia?
Andrea Bruciati: «Credo che in Italia sia possibile come in tanti altri Paesi occidentali, anche se i due artisti più rappresentativi in tal senso raggiungono esiti retorici e illustrativi. Quando un artista generoso e motivato a livello sociale è coerente e fedele alle motivazioni ultime del suo operare, vedasi ad esempio gli interventi abrasivi a Bologna di Blu, siamo invece dinanzi ad un’azione politica di grande rilievo e rispetto».
The Cool Couple è un duo formatosi nel novembre 2012, da Simone Santilli (Portogruaro, 9 gennaio 1987) e Niccolò Benetton (Arzignano, 17 gennaio 1986), che vive e lavora a Milano.

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