13 dicembre 2016

ALLONS ENFANT/23

 
Torna la rubrica sui giovani artisti italiani a cura di Andrea Bruciati. Sotto i riflettori Diego Gualandris.

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Se esiste il modo di trovare la perfetta disposizione di tutti gli oggetti in un particolare spazio si potrebbe creare una risonanza i cui benefici avrebbero, per la persona che vive in questo spazio, un effetto rilevante, che porterebbe lontano, molto lontano.
Benjamin Horne in “I segreti di Twin Peaks”, serie creata da Mark Frost e David Lynch, episodio 11, seconda stagione, 1990.
Il perché di questa scelta?
«Benjamin Horne, il personaggio interpretato da Richard Beymer, è un mirabile raggiratore ma forse un po’ troppo ingenuo, infatti nel corso delle vicende che lo investono anche in prima persona viene a sua volta raggirato perdendo tutto il suo potere e spogliandosi quindi di quegli attributi che hanno fatto sì che rivestisse un ruolo moralmente detestabile. La sua imprevedibile umanità, ma anche la sua poeticità, emergono proprio in questo momento: pare proprio scivolato nell’abisso del suo fallimento personale mentre rinchiuso nel suo ufficio che prima era la sua sede di comando, lo si trova a rivedere con le lacrime agli occhi e la barba incolta vecchi filmati; ma soprattutto quando rivela a Hank la sua teoria estetica sulla disposizione degli oggetti e sui “benefici” che questa può portare. L’estratto riprende appunto questo momento. L’ho scelto perché è la prima volta che mi è capitato di trascrivere una battuta da una fiction, da un testo o da un libro qualsiasi».
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Che cosa ti suggerisce questa battuta?
«Si evince una dinamica che in qualche modo appare utopica e allo stesso tempo tragica, è una specie di manifesto estetico balbettato nel vuoto. La posta in gioco è “un effetto rilevante che porterebbe lontano, molto lontano” non si sa dove ma, ipotizzo, lontano dalla sofferenza, da un presente inadeguato a uno spirito già proiettato nel futuro, verso una possibilità di redenzione e riscatto al contempo sociale, estetico, intellettuale, forse anche spirituale. Gli sceneggiatori hanno deciso di inserire battute come questa al personaggio di Benjamin Horne proprio nel momento in cui pare regredire mentalmente in preda alla propria disperazione. Tra i vari motivi che ho immaginato c’è che sia stato fatto per creare un conflitto televisivamente interessante all’interno del personaggio, facendo irrompere in esso un’improvvisa indole estetica prima insospettabile; comunque non ho ancora visto tutti gli episodi di Twin Peaks quindi tali questioni potrebbero anche risolversi man mano. Questo passo per me non è stato un’epifania, nel senso che non mi ha rivelato alcun modello attitudinale al quale mi voglio conformare o che penso debba essere perseguito o meno e non mi ha illuminato in funzione del mio percorso, è piuttosto qualcosa che mi arrovella il cervello nelle sue dinamiche e nelle sue numerose chiavi di lettura e che ancora non ha trovato forma».
Parlaci del tuo percorso di formazione.
«Nel 2012 mi iscrissi a Brera e mi trovai accanto a lavori fatti da gente giovane, viva, fresca, che se ne stava a due passi dalla propria opera e la commentava con una spontaneità per me spiazzante; c’erano sguardi che dominavano e sguardi che subivano. Sentii di essere dentro a qualcosa di reale, giusto, raro e allo stesso tempo aberrante e ansiogeno. Ricordo che proprio in quel periodo mi misi a guardare un sacco di documentari sugli animali e iniziai a fumare. Nel 2013 mi trasferii a Milano, ma il fatto che Alberto Garutti fosse andato in pensione mi portò a scegliere di non frequentare più l’Accademia. Non so realmente perché io l’abbia fatto; certo, mi sentivo smarrito, ma da una guida che comunque mi turbava. Probabilmente vidi infrangersi la possibilità di soddisfare il bisogno, instillatomi involontariamente da Garutti stesso, di esistere come artista, o anche solo come persona che cerca di fare qualcosa di più che sopravvivere; quindi tanto valse rinunciare a qualsiasi altra istituzione formativa per intraprendere un percorso autonomo. Chissà. A ogni modo sentii presto la necessità di un confronto e nel 2014 mi iscrissi all’accademia Carrara di Bergamo, che sto ancora frequentando. Qui sembra di essere in un oasi e forse in certi momenti pare assonnata, ma c’è comunque molta qualità».
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Che rapporto hai con il web e le formulazioni dei tuoi coetanei che traggono dalla rete ispirazione.
«”Internet sogna se stesso?”, domanda intrigante che Herzog pone a due neuroscienziati nel suo ultimo film Lo and Behold. Questi restano nell’imbarazzo per qualche secondo e poi cercano di dare risposte, che restano tuttavia meno interessanti della domanda. Trovo che questa sia cruciale perché ipotizza un’autocoscienza, e quindi un’individualità vera e propria di internet nel suo insieme, e non solo del web, presupponendo l’eventualità in cui potrebbe anche sentire il bisogno di andare da uno psicologo. Internet è ovunque e ci si immagina che avrà una lunga vita fagocitata da un cannibalismo mediale che lo vede evolversi nel tempo attraverso una presenza tanto pervasiva quanto misteriosa. Direi che al momento la questione mi interessa in questi termini ma attualmente al di fuori del mio lavoro. Fino allo scorso anno nei lavori era evidente, e indispensabile all’interno di essi, la presenza di internet; non dico di essermene servito perché ho il sospetto che sia stato internet a servirsi di se stesso per portarmi a produrre quelle opere. Credo infatti che sia estremamente complesso avere a che fare in modo davvero consapevole con un sistema che parla una sua lingua, incomprensibile alla maggior parte di noi, nascosta da interfacce che simulano il nostro vocabolario visivo per permetterci un’interazione, comunque limitata. Perciò attualmente sto evitando di inserire questa entità nel mio lavoro. Credo che non sia più necessario specificare il fatto che le nostre esistenze ne siano ampiamente coinvolte e il mio timore è che si vada incontro a un’estetizzazione ben lontana dalla complessità del fenomeno. Mi interessa poco l’approccio di alcuni artisti, anche miei coetanei, interessati a leggere internet come un semplice vocabolario visivo che dispensa immagini o immaginari precostituiti. Cory Arcangel ad esempio è invece estremamente consapevole nel trattare la questione, anche grazie alla sua profonda conoscenza della rete e seppure non si tratti di un ‘nativo digitale’ trovo che il suo contributo sia ancora fondamentale in merito a questa sensibilità».
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Qual’è la funzione dell’artista in questa dimensione pervasiva dell’immagine?
«Non ne ho idea, almeno in termini generali, ma personalmente mi pongo spesso la domanda: “Perché qualcosa deve esistere piuttosto che no?”. L’esperienza del vuoto, del rinunciare a far esistere qualcosa, secondo me è fondamentale per poter poi concretizzare una forma che sia il più possibile sincera, o al contrario per rinunciare a comporla. È una domanda che porta non solo a chiedersi “perché produrre un’immagine?”, ma “perché fare arte?”. Questo mi fa pensare anche alla frase recitata da Pasolini nell’ultima scena del Decameron: “Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?”. Generalmente si pensa che un lavoro debba suscitare interrogativi più che dare risposte, ma nel momento in cui esso è tangibile afferma la propria esistenza e quindi incarna una risposta definitiva rispetto alla problematica di esistere. Ciò non significa però che un’opera per risultare sincera debba per forza smaterializzarsi o mimetizzarsi nello spazio attraverso una sintesi che la riduca all’essenziale; infatti può anche darsi che un lavoro di questa natura possa essere molto più invadente e chiassoso di un altro che ad esempio esalta potentemente l’aspetto percettivo».
Su cosa ti stai indirizzando nel frattempo?
«Circa un anno fa portai avanti una ricerca in merito alle società di network marketing in quanto promotrici di un’attitudine che ha precise radici nella pratica dell’evangelizzazione. Leggendo diversi autori, che molto spesso erano allo stesso tempo business man o pastori della chiesa scientista (che non è Scientology), mi resi conto della funzione iconica di quei testi: vi si trovava per lo più una serie di consigli che però assumevano le sembianze di una morale del successo. Venni pertanto a conoscenza della “Legge di attrazione”, apoteosi dell’ottimismo imprenditoriale, che però meriterebbe un’analisi più dettagliata. Questi lavori (una serie di sculture e una serie dipinti) si muovono attorno a un fulcro, dal quale derivano entrambe: si tratta di un testo di self-consciousness, si intitola I dieci anelli del potere, scritto da Joe Vitale e mi ci sono rapportato come se fossi un Giulio Romano con l’Amore e Psiche di Apuleio, ma senza i Gonzaga. Mi interessava  creare un rapporto immagine-mito».
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Il tuo sembra un bisogno di radici, di creare un ponte stabile ma polimorfo con una tradizione.
«Da un certo punto di vista è sicuramente così; tuttavia credo che questa impressione dipenda anche da cosa si intende per tradizione, storia, radici. Boris Groys ha detto che l’arte è un luogo di democratizzazione tra i vivi e i morti: in tale contesto i ponti sarebbero innumerevoli, così tanti che verrebbe da pensare che ve n’è uno solo su cui stanno tutti quanti. Ad ogni modo direi che sono più interessato al rapporto artista-committente, sia per l’illustre storia da cui questo rapporto deriva, sia per la sua caratteristica dialogica. Nel mio caso il dialogo è in realtà un monologo, perché non esiste un committente; ma immaginandomi (non troppo seriamente però) uno spettatore ideale per i miei nuovi lavori penso a Joe Vitale stesso, o a Rob Proctor, o a un altro autore di libri di self-help, il quale vedendo i miei lavori decide di invitarmi nella sua casa in Ohio per affrescargli il salotto con le vite dei suoi santi: Napoleon Hill, P.T.Barnum, Tony Robbins e, probabilmente, se stesso».
Diego Gualandris: “Cogliere il momento giusto – vendicarsi, quando farlo e perché è così bello – non perdere mai di vista l’obbiettivo – lavorare con passione – vincere la paura – creare la propria fortuna – concludere i contratti giusti, non solo negli affari ma anche nel… matrimonio”. Questi sono alcuni punti elencati sul retro di copertina di un self-help [libri di motivazione, autostima, crescita personale, n.d.r.] che si intitola “Pensa in grande e manda tutti al diavolo nel lavoro e nella vita”. Secondo te c’è qualcosa che potrebbe essere ritenuto valido, o addirittura fondamentale, anche all’interno di un’attività come la tua o la mia?
Andrea Bruciati: «Lavorare con passione non fa rima con relazione stabile: per il resto entrambi sono i due lati della stessa medaglia emotivamente positiva, assolutamente fondamentale».
Diego Gualandris ha 23 anni, è nato ad Alzano Lombardo (Bergamo), vive tra Milano e Albino (Bergamo). 

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