14 luglio 2014

L’altra metà dell’arte

 
Intervista ad Alessandra Saviotti, curatrice indipendente a 360°. Non solo curatela quindi, ma anche coordinamento degli artisti, produzione e fund raising. Perché, spiega lei, «quando un progetto cresce, bisogna nutrirlo non solo con le idee». E anche se trovare i finanziamenti oggi è sempre più difficile, «il denaro diventa una variabile determinante per far sì che la sperimentazione possa generare progetti sempre più importanti»
di Manuela Valentini

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Qual è stata la tua prima esperienza nell’ambito della produzione artistica?
«Durante i miei studi allo IUAV di Venezia, ho co-fondato con Giulia Gabrielli, Gabriella Guida e Eva Cenghiaro il collettivo Aspra.mente nel 2006, all’interno del quale mi sono sempre occupata per lo più della parte curatoriale. La nostra linea di lavoro è legata al contesto sociale e culturale del luogo in cui si cerca di proporre il progetto, cercando di coinvolgere direttamente il pubblico e cercando una sorta di responsabilizzazione collettiva che renda l’atto artistico il più partecipativo possibile. Siamo state coinvolte in vari progetti più o meno impegnativi fino al 2008, quando siamo state invitate da Cornelia Lauf e Ilaria Gianni per la mostra Social Art Praxis all’interno di Manifesta 7. In occasione di questa mostra mi sono confrontata per la prima volta con una grossa produzione e ho capito l’importanza di lavorare in modo collaborativo. Prima di tutto il confronto è importante per vedere il proprio lavoro da differenti punti di vista; specialmente quando ci si occupa di progetti che sono dilatati a livello temporale, è facile perdere il focus talvolta. Attraverso lo scambio continuo e reciproco, non solo tra noi, ma anche tra tutti i soggetti coinvolti nelle nostre produzioni, siamo sempre riuscite a rimanere sulla strada giusta e a rendere i nostri progetti coerenti».

E poi, come ha proseguito la tua carriera?
«Ho trascorso un anno a Bologna, dove ho collaborato con neon>campo base, uno dei primi spazi no profit italiani che purtroppo oggi non esiste più. Successivamente mi sono spostata a Londra grazie al supporto di una borsa di studio. Qui ho lavorato a FormContent, project space fondato da Caterina Riva, Francesco Pedraglio e Pieternel Vermoortel, molto flessibile, scollegato alle dinamiche del mercato; un vero e proprio spazio aperto alla sperimentazione sia degli artisti sia dei curatori. Il loro programma prevedeva mostre personali, collettive, progetti scaturiti da collaborazioni con un ritmo molto serrato. Ogni sei settimane all’incirca, veniva presentato un nuovo progetto, e infatti in cinque mesi ho potuto lavorare alla realizzazione di due mostre nello spazio londinese (“It’s not for reading. It’s for making” e “Lost in your eyes/Foreign Correspondent”) e una alla GAM di Torino (“I giovani che visitano le nostre rovine non vi vedono che uno stile”). Uno dei principi fondamentali della pratica di FormContent era appunto sviluppare un dialogo diretto con gli artisti invitati, aspetto che ho recuperato anche nella mia modalità successiva di lavoro». 
Oggi con quale spirito guardi al passato? 
«A distanza di tempo, considero queste due esperienze fondamentali per la mia formazione. Lavorare in maniera  completamente indipendente rispetto al mercato, mi ha messa di fronte alle possibilità infinite che possono nascere avendo a disposizione uno spazio e artisti con cui condividere un percorso, senza per forza pensare a produrre un valore monetario. Tuttavia il denaro prima o poi diventa una variabile determinante per far sì che poi la sperimentazione possa generare progetti mano a mano più importanti. Ed ecco che il fund raising diventa una parte fondamentale per la crescita del proprio percorso».
Com’è proseguito il tuo percorso professionale?
«Tornata in Italia, ho stretto un sodalizio curatoriale con Marianna Liosi con la quale lavoro dal 2009. Sino ad ora abbiamo curato tre mostre in Italia (“Studio”, “Mandragora”, “L’immaginazione vede”) cercando di far dialogare spazi non deputati all’arte contemporanea e il lavoro degli artisti, forzando la loro ricerca sullo spazio, talvolta davvero difficile da penetrare e ci siamo occupate direttamente della produzione dei lavori di alcuni artisti. Dal 2010 collaboro alla produzione delle opere di Francesca Grilli occupandomi della ricerca teorica, dell’organizzazione e della vera e propria gestione del team che lavora per lei».
Per caso hai anche collaborato alla produzione dell’opera con la quale Francesca Grilli ha partecipato alla 55ima edizione della Biennale d’Arte di Venezia?
«Sì, in totale ho seguito cinque importanti produzioni di Francesca, quasi tutte abbastanza complicate e lunghe a livello temporale. La più impegnativa è stata appunto Ossido Ferrico, il lavoro presentato al Padiglione Italia l’anno scorso. A distanza di tempo posso affermare che a livello organizzativo è stata la migliore: data l’importanza che questo lavoro ricopriva per Francesca, ma per tutti noi coinvolti, abbiamo iniziato a lavorare non appena l’invito è arrivato, cercando di costruire un piccolo team di riferimento anche a Venezia che lavorasse a stretto contatto sia con me sia con Centrale Fies, un’istituzione che dal 2008 supporta alcuni progetti di Francesca. Dato che io vivo in Olanda, non potendomi trasferire a Venezia per molti mesi, ho coordinato tutto da lontano facendo un vero e proprio piano di lavoro con scadenze precise, riunioni via Skype ogni giorno e cercando di mantenere i nervi saldi anche di fronte a problemi apparentemente insormontabili dati anche dalla conformazione geografica della città stessa. Poi mi sono trasferita a Venezia l’ultimo mese prima dell’inaugurazione quando l’opera è stata installata nello spazio. Qui abbiamo passato giornate intere di prove con le performers e test sulla struttura metallica. A livello di reperimento materiali e costruzione, invece, non è stato complicato. O meglio, Francesca negli anni ha costituito un gruppo di persone altamente qualificate che sono riuscite a dare forma concreta alle sue intuizioni».
Facciamo un passo indietro e torniamo al fund raising da te precedentemente citato tra le varie attività svolte in qualità di curatrice indipendente. Qual è l’ingrediente essenziale per riuscire ad ottenere risultati positivi in questo campo?
«Innanzitutto vorrei specificare che, lavorando prevalentemente come curatrice indipendente, è abbastanza comune occuparsi anche di fund raising. Come dicevo prima, quando un progetto cresce, poi bisogna nutrirlo, non solo con le idee. Mi sono occupata del fund raising anche per il lavoro di Francesca alla Biennale e credo che avere il controllo sul processo artistico che porta alla concretizzazione di un’opera, vada di pari passo con la gestione di tutta la produzione e conseguentemente del reperimento fondi. Non credo che potrei gestire un progetto senza conoscerne profondamente l’urgenza da parte dell’artista. Come non credo che potrei convincere un potenziale finanziatore usando sempre la stessa formula per progetti diversi. Serve sempre quel qualcosa in più da trasmettere a chi deciderà di riporre fiducia nel sostegno di un progetto».
Immagino che la crisi non aiuti molto in questo senso.
«Effettivamente è molto complicato reperire fondi in Italia, un Paese in cui non vi è un vero e proprio sistema di bandi pubblici a cui sia artisti che curatori possono rivolgersi e dove le Istituzioni culturali sono in grande difficoltà economica. Esistono sistemi alternativi per il finanziamento, come ad esempio il crowdfunding, talvolta efficace e sempre più utilizzato anche in ambito culturale. Un terreno un po’ più delicato è il finanziamento privato: io sono completamente per i finanziamenti pubblici soprattutto per quanto riguarda progetti culturali, ma se il sistema si blocca e non funziona più, credo che un’apertura verso il privato sia una strada percorribile se si vuole sopravvivere». 
Sei ravennate, ma ormai da qualche anno ti sei trasferita in Olanda. Come mai? 
«Mi sono trasferita in Olanda nel 2012 per motivi familiari e dopo un mese dal mio arrivo sono stata coinvolta da vessel nell’ambizioso progetto Giant Step che aveva tra i partner il Van Abbemuseum che si trova ad Eindhoven, la città dove vivo. Successivamente sono stata selezionata dalla Jan Van Eyck Academie di Maastricht, dove ho sviluppato ulteriormente la mia ricerca relativa alla pratiche di collaborazione in ambito artistico. Nello specifico mi sono occupata, tra le altre cose, della costruzione dell’Archivio sull’Arte Útil, un progetto che il Van Abbemuseum ha condotto in collaborazione con l’artista Tania Bruguera, il Queens Museum of Art di New York e numerosi curatori e storici dell’arte dislocati in tutto il mondo. The Museum of Arte Útil si è concluso a marzo di quest’anno e ho raccontato la mia esperienza proprio qui su Exibart».

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