27 maggio 2013

Ritratto del curatore da giovane

 
Incontro con Eva Fabbris, 33 anni e incaricata del coordinamento della sessione "Back to the Future" alla prossima edizione di Artissima
di Manuela Valentini

di

Eva, presentati per favore.
«Sono nata vicino a Vicenza, ho 33 anni. Vivo a Bruxelles, dove sono in residenza come curatrice della galleria dell’Ecole de Recherche Graphique, una scuola superiore d’arte fondata 30 anni fa da Thierry De Duve.» 
Qual è il tuo percorso formativo?
«Ho una laurea quadriennale in Museologia e Storia del Collezionismo, ottenuta a Ca’Foscari, con una tesi sulle mostre ‘curate’ da Marcel Duchamp. Questo argomento di studio mi ha permesso di fare uno stage al dipartimento d’arte moderna e contemporanea del Philadelphia Museum of Art, con Carlos Basualdo e Michael Taylor. Durante questo stage ho cominciato a imparare le basi della pratica curatoriale in ambito museale, e questa formazione mi ha permesso di accedere a un secondo stage, a Museion, che poi si è trasformato in una posizione di assistente curatoriale. Tre anni fa ho iniziato un dottorato di ricerca presso l’Università di Trento, la mia tutor è stata Emanuela De Cecco; ho discusso la tesi a fine aprile. Ho ripreso il mio argomento di tesi quadriennale, proponendolo in una prospettiva storica nuova. Mi sono chiesta come la letteratura storico artistica ha affrontato il tema del rapporto tra opera d’arte, spettatore e spazio espositivo così come Duchamp l’ha sperimentato, soprattutto nelle mostre surrealiste. E ho individuato e studiato due figure (Gene Swenson e Brian O’Doherty) attive a New York alla fine degli anni Sessanta che, a mio avviso, hanno colto e riproposto nelle loro pratiche critico-curatoriali le implicazioni teoriche di questo aspetto dell’attività duchampiana. Questa ricerca non è uno studio sul ready-made, e tralascia volutamente il versante concettuale dell’eredità duchampiana. Si tratta di una riflessione storico-critica su un modus espositivo che Lewis Kachur chiama ‘ideological exhibition’, riferendosi alle mostre d’avanguardia in cui le istanze fondamentali di un movimento connotano lo spazio in cui le opere sono mostrate. Per me questa ricerca rappresenta un modo di cercare le radici storiche della curatela in un confronto diretto con delle pratiche artistiche, nel momento, alla fine degli anni Sessanta, in cui l’attenzione per il contesto d’esposizione, la relazione con lo spettatore, l’attitudine alla raccolta, alla selezione, all’inclusione, al display diventano sia istanze centrali per alcuni artisti, che campo d’azione per la nuova figura autoriale del curatore indipendente».
Di che cosa ti sei occupata esattamente nella tu collaborazione con il Museion di Bolzano?
«Sono stata assistente curatoriale per due anni e in questa veste mi sono occupata di diversi progetti. Ho durante la direzione di Corinne Diserens, con la quale in particolare ho seguito “Sguardo Periferico e Corpo Collettivo”, la grande mostra con cui ha inaugurato la nuova sede del museo nel 2008. Con la successiva direzione di Letizia Ragaglia, mi sono occupata di altri progetti, tra cui la realizzazione dell’opera Inverted Funicular Bridge di Simon Starling. Ho curato una rassegna di video che venivano proiettati in orario serale sulle facciate esterne dell’edificio, intitolata Nocturnes». 
Sarai la coordinatrice della sezione “Back to the Future” di Artissima. Se ci sono, quali saranno le novità di quest’anno?
«C’è una novità molto importante dal punto di vista della prospettiva storica, cioè l’apertura agli anni Ottanta. Fino ad ora “Back to the Future” è stata espressione di un’attenzione verso figure attive nei due decenni precedenti. Ora, partendo dalla considerazione che gli anni Ottanta sono a tutti gli effetti un bacino di riferimento per gli artisti delle generazioni più giovani, la sezione si apre anche a rappresentanti di quel decennio non universalmente noti, ampliando il range temporale di indagine e le possibilità di scoprire o approfondire figure meno conosciute per il pubblico di Artissima».
Paul Sietsema, Anticultural Positions , 2009, in Nou nou; cage aux lions, galerie de l’erg (Bruxelles), settembre 2012
Una bella responsabilità, così giovane, coordinare personaggi del calibro di Caroline Bourgeois, curatrice della Collezione Pinault….
«Direi soprattutto una bella occasione per conoscere i loro metodi di ricerca. La commissione è incaricata sia di selezionare le partecipazioni tra le application ricevute dalle gallerie che desiderano proporre un partecipante a “Back to the Future”, che di indicare degli artisti adatti a figurare in questa sezione. Questo per me significa assistere e collaborare a due processi molto significativi degli interessi, delle esperienze e dei criteri di valutazione che Caroline Bourgeois, Patrick Charpenel, Hou Hanru e Kasper Koenig mettono in campo rispetto a una prospettiva storica come quella proposta da questa sezione. E poi lavoro in dialogo costante con Sarah Cosulich Canarutto e con tutto l’eccellente staff di Artissima.»
Che differenze ci sono tra l’organizzazione di una sezione d’arte contemporanea all’interno di una fiera e la curatela di una mostra in un museo o in una galleria? Quali i pro e i contro?
«Non parlerei di pro e contro, né di maggiore o minore difficoltà; sono ovviamente due sistemi molto differenti tra loro, ma  in entrambi i casi a livello organizzativo sono necessari grande energia, attenzione e lavoro di squadra. La mia collaborazione con Artissima è ancora in una prima fase, molto legata alla ricerca. Stiamo parlando, nel mio caso, di una sezione con stand monografici, dedicata a un periodo storico preciso, quindi l’aspetto di approfondimento su singole pratiche artistiche ha un grande peso in quello che sto facendo».
Che cosa significa per te curare una mostra? 
«Una mostra è un’esperienza; se è bella è un’occasione per capire qualcosa di nuovo sul mondo, per provare piacere, per conoscermi meglio, per acquisire una nuova prospettiva. Curarla, significa conoscere in maniera diretta e profonda il lavoro di uno o più artisti; cercare di essere un buon interlocutore per chi espone; risolvere molte questioni pratiche; mettere in comunicazione ciò che è esposto con il contesto locale, e non, in cui la mostra avviene». 
Al di fuori del circuito artistico, secondo te com’è vista e considerata la tua professione?
«Mah, non saprei. Credo venga considerato un lavoro molto divertente, e per alcuni inutile. Non sanno forse già gli artisti come, dove e con chi esporre il proprio lavoro? Del resto, anche all’interno del circuito artistico stesso, la definizione del ruolo del curatore si colloca, a seconda delle diverse personalità e delle istituzioni che ne danno un’interpretazione, in punti diversi di un range molto ampio tra professionismo e poesia, tra radice teorica e ricerca storica».
In relazione al tuo lavoro ed in generale alla cultura, cosa chiederesti alle Istituzioni italiane? 
«Ho beneficiato per tre anni di una borsa di studio che ho ricevuto dall’Università di Trento, che mi ha anche messo a disposizione diversi servizi; non posso che sperare che l’opportunità di studiare per un periodo continuativo e col sostegno di un’istituzione universitaria continui ad essere una possibilità effettiva per chi si vuole occupare anche in Italia di arte contemporanea. E la continuità è ciò che secondo me dovrebbe essere garantita anche all’interno delle istituzioni museali nazionali: i programmi espositivi in parecchi casi (non in tutti: ci sono anche piccole realtà espositive che fanno dell’agilità la loro forza) avrebbero bisogno di poter contare su una gestazione lunga. Progetti espositivi di ampio respiro, monografiche, mostre mid-career da scambiare con istituzioni all’estero, cataloghi ragionati, catalogazione delle collezioni: sono piccole ‘imprese’ che hanno bisogno di tempo, oltre che, ovviamente, di fondi. Se direttori artistici, curatori e conservatori hanno nomine a tempi brevi o brevissimi, queste cose non si fanno.»

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