30 ottobre 2013

Ritratto del curatore da giovane

 
Questa volta Manuela Valentini intervista Laura Fanti, trentenne romana che lavora da dieci anni sia nel campo didattico sia nell'ambito critico/curatoriale. Ma guai a chiamarla curatrice!

di

Laura, quanti anni hai e dove vivi?
«Sono nata sulle colline intorno a Roma trentotto anni fa, per sei anni ho vissuto nella capitale e poi sono fuggita. Negli ultimi dieci anni ho fatto la pendolare con Firenze e con Genova, città che considero la mia seconda casa. Da tre anni sono tornata sui colli».
Qual è il tuo percorso formativo?
«Ho studiato Lettere con indirizzo artistico alla Sapienza (passando prima per Lingue). Non volevo una tesi esclusivamente storico-artistica e il mio prof mi ha assegnato un lavoro dal taglio più critico e filosofico, che partisse dalla ricezione de La nascita della tragedia di Nietzsche nella pittura europea di fine XIX secolo, con incursioni nella letteratura e nelle teorie dell’epoca, analizzando le premesse di quello studio, come la filosofia di Schopenhauer e l’ancora poco nota Estetica del Brutto di Rosenkranz; un momento di rottura nella cultura europea, i cui esiti arrivano fino a noi. Un lavoraccio che non so se rifarei…follie dei vent’anni, ma mi ha allenata all’esercizio critico. Appena laureata mi sono subito iscritta al concorso per la triennale scuola di specializzazione in Storia dell’arte (scuola ora ridotta a un biennio scarno scarno). Passai l’esame anche a Siena, ma decisi di iscrivermi a Firenze dove ho approfondito argomenti di cui all’università  non parlava nessuno, non solo restauro, museologia e fotografia, ma anche architettura contemporanea e archeologia industriale».
Armida Gandini, Noli me tangere, 2007, fotografia dell'installazione fotografica presso MAGA di Gallarate (collezione permanente)
Il tuo interesse spazia dall’Ottocento fino ad arrivare all’arte contemporanea e comprende anche studi approfonditi di museologia, filosofia e fotografia. Decisamente atipico per i curricula dei critici d’arte di oggi, che tendono a specializzarsi sempre di più in una precisa disciplina, epoca o settore.  
«Guarda, l’iper-specializzazione non l’ho mai amata, soprattutto nell’arte contemporanea la trovo davvero nociva. Io mi considero un’intellettuale, parola fuori moda, detestabile quanto vuoi, solo perché la carichiamo di valenze negative e snobistiche. Invece, dobbiamo rivalutare o meglio, rifondare questa “condizione esistenziale”, se non facciamo questo il lavoro umanistico non sarà mai adeguatamente retribuito perché non conosciuto (penso anche al bisogno di rifondare l’umanesimo di cui parla Julia Kristeva in Bisogno di credere). Se non si ha una formazione adeguata, si rischia di trovarsi davanti a un artista più “intellettuale” o complesso e di non capirne i riferimenti, oppure si allestiscono mostre paurose dove la luce è riflessa sui vetri, dove fotografie che hanno bisogno di spazio per essere viste vengono confinate in stanze piccole, umide, ecc. 
Per me anche la materia dell’opera d’arte è fondamentale, sapere che un artista predilige una tecnica piuttosto che un’altra mi dice molto e ne tengo sempre conto quando scrivo. Questo vale anche per l’arte moderna o comunque storicizzata, i dipinti sono fatti di materia e molti studiosi trascurano questo fatto. La mia esperienza con Alessandra Bonomo, nella cui galleria ho maneggiato quotidianamente carte di Boetti, lavori di Sol LeWitt, per dirne solo due dei maggiori, in questo è stato un bel tirocinio».

Premio Celeste 2012, Roma, ex GIL, 18 ottobre 2012, (foto di Michela Dal Forno)

Tu tieni a precisare che, più che una curatrice, sei una critica e storica dell’arte. Ma quali sono le differenze sostanziali tra queste due professioni? 
«Provo ad essere sintetica. Chi si definisce “curatore” potrebbe non conoscere l’origine del termine, nato per definire chi si prende cura di una collezione (di libri, di disegni, di dipinti, ecc.). Oggi “a cura di” si utilizza per molte iniziative – una collana editoriale, un catalogo, un evento, un festival, un concorso – ma più spesso per curatore si intende “colui che organizza mostre”. Come hai intuito, non amo dedicarmi a un solo progetto o a un solo modo di vivificare l’arte e spesso trovo la mostra un qualcosa in cui non mi riconosco, inoltre, non so come faccia chi cura mostre ogni settimana o ogni quindici giorni! A me sembra di non avere mai il tempo necessario. Se per “cura”, invece, intendiamo accompagnare il percorso degli artisti e sostenerli, ma anche aggiornarsi, confrontarsi, non rimanere chiusi nel cliché di una mostra o scendere a compromessi con il mercato, ecco, sono una curatrice. Mi curo dell’arte, ma non necessariamente in previsione di una mostra, e, all’inverso, ho avuto parte attiva in mostre in cui non troverai il mio nome! La visione odierna del curatore – non in erba – può ricondursi alla definizione che Carla Lonzi dava del critico americano, una persona potente, “che può fare operazioni, che ha clientela che influisce sul mercato, sul gallerista…Lì il critico favorisce il meccanismo” (Autoritratto, p. 66). Ecco, io non mi riconosco in questa figura che ritengo non vada confusa con chi intende la critica più come sguardo, studio e ricerca e questa esprime attraverso la scrittura. Diciamo che l’evento e il mercato mi interessano molto poco, fatto sta che ho rifiutato degli incarichi che mi sembravano uno svilimento del mio ruolo, o di curare mostre in cui non credo. Ci sono anche persone che intrecciano perfettamente le due figure professionali, con ottime capacità organizzative e di fundraising con la cultura, ma sono rarissime».
Andrea Frank, Ports & Ships, Kunsthalle Göppingen (G), 2008

Secondo te, la critica d’arte vera, quella che non teme giudizi altrui o che non asseconda interessi personali, esiste ancora? 
«Ti rispondo con due considerazioni: c’è la crisi della critica ma anche la crisi dell’artista.
La crisi della critica è forse iniziata con il ’68 e con il crollo dei ruoli di potere, se leggi Carla Lonzi capisci cosa voglio dire. Non è un caso che in quegli anni sia nata anche l’Arte Concettuale. Oggi gli artisti sentono di doversi promuovere, vendere, pensano a come entrare nel “sistema”, a cosa fa tendenza, a come presentare il proprio lavoro, ecc. Posto che non credo alla figura dell’artista sognante e svampito, non credo neanche a queste figure di presunti artisti che invece di interessarsi alla qualità del proprio lavoro si interessano ai critici in quanto possibile tramite con il mercato. Io rifuggo da questo ruolo. Al massimo sono un tramite tra l’opera e il pubblico, la scrittura aiuta in questo, ed è proprio la sfida di trasformare in parola l’ineffabile dell’arte visiva la mia prima fascinazione per quest’attività, ma la critica come mediazione mi fa piuttosto orrore. Così come la critica che separa, che divide. Non per vantarmi, ma dati gli anni (dieci) che mi occupo di critica, posso dirti che non ho mai assecondato nessuno, sono una outsider e ne pago le conseguenze, senza lamentarmi. Non so cosa sia vero o cosa no, è difficile stabilire quale sia la vera critica, certo, il campo della recensione delle mostre è davvero un limbo, l’ho abbandonato da un anno circa, è uno degli spazi più ambigui della critica, ma non voglio dilungarmi, posso solo dirti che lasciarlo al giornalista (non esperto d’arte) può essere un rischio (e lo vediamo anche quando ci si pronuncia su questioni tipo quella attuale del MAXXI). È un ottimo esercizio di scrittura, ma poi va abbandonato. La critica non servile sicuramente può essere autentica ma ci vuole studio, occhio, aggiornamento e, forse, anche abilità».
Armida Gandini, Siamo gli incontri che facciamo - Installazione fotografica (particolare di 8 scatti, dal 2011 (work in progress)
Di che cosa avrebbe bisogno la ricerca universitaria in campo artistico per funzionare meglio?
«Innanzitutto fare ricerca veramente! L’arte contemporanea è vista come un gingillo per qualche folle appassionato, raramente è concepita come una disciplina, così viene snaturata in due modi opposti: o iper-contaminata con new-media, spettacolo, video, ecc. o iper-accademicizzata e rinsecchita per cui ad essa si toglie tutta la patina di passione che uno studioso dovrebbe metterci. Collocarla all’interno dei dipartimenti nel modo più consono, con veri esperti della materia (non nostalgici di David ma neanche meri curiosi di arte tecnologica), biblioteche adeguate, fondi, scambi culturali (nel contemporaneo ce ne sono davvero pochi)».
Cosa bolle in pentola?
«Ho in uscita un libro su Ferdinand Hodler presso Carocci (per ritornare al mio vecchio amore per il Simbolismo – che non è mai morto in realtà), la prima monografia in italiano sull’artista. In autunno attiverò una collaborazione con Scatola Bianca City Shake a Milano che coinvolge le mie recenti ricerche sull’Arte Ambientale e sull’architettura, e un nuovo seminario al Siena Art Institute dove sono stata già invitata in primavera, per ora mi sento di parlare solo di questi prossimi impegni».

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