26 ottobre 2013

Ritratto del curatore da giovane

 
Manuela Valentini intervista Denis Isaia, ricercatore culturale e curatore d’arte contemporanea di Bolzano. Con idee chiare sulla curatela e una particolare predilezione nei confronti dei premi. Gli abbiamo chiesto di spiegarci il perché

di

Denis, di dove sei e dove vivi attualmente?
«Mi sono formato a Torino dove sono nato 39 anni fa. Professionalmente sono cresciuto fra il Trentino e l’Alto Adige dove vivo e lavoro da circa 10 anni.»
Tu sei un curatore d’arte contemporanea. Cosa si intende per “contemporaneo” al giorno d’oggi?
«Il contemporaneo è un terreno scivoloso e uno spazio aperto. A me interessa nella misura in cui mi permette di trattare, con dignità pubblica, ambiti che altrimenti dovrei rilegare all’interesse personale. Se non tradisce il desiderio di rimanere diverso da se stesso, il concetto di contemporaneo mi pare possa avere ancora lunga vita.»
Del paese e altre storie ricerca Palazzo Ducale Genova 2009
Come si colloca la figura del curatore nell’ambito della storia dell’arte?
«Credo che la pratica curatoriale (non necessariamente il curatore) possa occupare un ruolo sempre più di rilievo nel sistema delle arti visive. Gli attuali slittamenti fra diverse sfere del reale con cui il curatore deve fare i conti aumentano i fraintendimenti, rendono schizofrenica l’esperienza, ma riservano anche le sorprese migliori. Se il curatore sarà fedele alla missione pubblica delle origini (l’unico denominatore comune che attraversa gran parte delle esperienze curatoriali), allora la sua pratica troverà spazi di espressione fertili. La trasversalità che occupa il mestiere di chi cura permette modalità di invasioni di campo non concesse ad altre pratiche. Per queste ragioni credo che dall’agire curatoriale stiano arrivando i segnali più dirompenti. Il miglior prodotto dell’intelletto che ho visto quest’anno è The Content of Form di Helmut Draxel presso Generali Foundation. Quella di Draxel è una mostra strabiliante per arguzia e libertà. Lui si è preso delle licenze che solo un curatore, o un artista che si comporta come un curatore, può oggi gestire. È l’evoluzione della stessa storia dell’arte che ci ha portato a questo punto. All’installazione – la regina indiscussa delle tecniche artistiche di successo del secondo dopoguerra – succede la progettualità. Gli artisti più interessanti che conosco sono quelli che sviluppano progettualità che esplodono dentro e fuori il campo d’azione della mostra. E la progettualità è un composto complesso che include un processo costante di spostamento dal piano del simbolico a quello del reale. Credo che l’ascesa della pratica curatoriale vada individuata nelle varianti che l’assetto produttivo dell’arte sta cercando. L’azione orchestrale che il curatore deve compiere per portare a termine il suo lavoro, l’abbandono della critica a favore dell’attivismo (cooperatore o antagonista), l’intrusione di desideri esterni alla polarizzazione produttiva artista/collezionista, la marginalizzazione di quest’ultima nelle sfere elitarie della società, le richieste di nuove applicazioni del simbolico legate all’emersione degli intangibili, l’esplosione della storia, l’aumento del peso specifico della cosa pubblica avvicinano le domande del presente agli strumenti e ai desideri dell’azione curatoriale.»
Live works, Performance art award 013 Centrale Fies
Dando un’occhiata al tuo curriculum, sembra tu abbia una particolare inclinazione all’organizzazione di premi d’arte. Da cosa deriva questo tuo interesse? 
«I premi sono degli archivi aperti. Se sono gestiti correttamente, sono degli spazi di possibilità che portano ad una migliore definizione dei prodotti culturali. Ho sempre cercato di organizzare dei premi esplorativi, in grado di avviare all’attenzione pubblica ambiti culturalmente eccellenti che non hanno avuto la possibilità di confrontarsi con una narrazione condivisa, perché non appartengono ad una disciplina o parlano un linguaggio sordo alle correnti principali. Tutti i premi che curo trattano espressioni marginali. L’arte ha molti luoghi adibiti alla sua conservazione, viceversa la storia delle mostre, gli immaginari ordinari e straordinari prodotti dalle passioni, o il lavoro sulla performance sono un modo per scavare lì dove è più difficile trovare dei complici di prima mano.»
Progetti futuri?
«Rendere più solido ciò che ho contribuito ad avviare: la definizione e all’archiviazione delle passioni, le piattaforme per il lavoro, l’ibridazione fra diversi settori della società. E continuare a curare almeno tre mostre l’anno, quelle, anche le minori, sono sempre motivo di piacere.»

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