05 marzo 2013

L’intervista/Adrian Paci Una vita in transito

 
L'uomo e il suo ciclo vitale, tra riti di passaggio, fratture emotive e separazioni, diventa protagonista delle ultime opere di Adrian Paci in mostra per la prima volta in Francia. In questa intervista a Exibart l’artista nato a Scutari racconta il suo modo di lavorare, meticolosamente costruito, ma che lascia spazio all’improvvisazione. Il suo amore per le cose semplici e il non amore per il sentimentalismo

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Antropologo dell’immagine, Adrian Paci ci apre in “Vies en Transit” la sua percezione dell’umanità e lo fa senza stereotipi attraverso una ventina di opere tra video, pittura, sculture e foto realizzate dal 1997 ad oggi. La mostra fino al 12 maggio al Jeu de Paume di Parigi, curata da Marta Gili (direttrice del museo) e da Marie Fraser in collaborazione con il Museo d’Arte Contemporaneo di Montreal, farà tappa al PAC di Milano, l’autunno prossimo. 
Classe 1969, albanese naturalizzato italiano, oggi vive e lavora a Milano, ed è in Italia dal 1997, anno in cui si vede costretto a lasciare l’Albania con la sua famiglia a causa dello scoppio di violenti disordini. Pittore ritrattista, poi astrattista, si dedica al video una volta in Italia. Ha partecipato a Manifesta, alle Biennali di Venezia e di Sidney, ha avuto mostre in musei importanti come il MoMA PS1 di New York e nel 2008 ha vinto la 15esima Quadriennale di Roma. 
In Adrian Paci la vita personale e l’arte s’intrecciano, spesso protagonista delle sue opere come nelle foto di Home to go (2009), non cade nell’intimismo ma coglie il viavai faticoso e a volte traumatico dell’uomo nelle società, attraverso un linguaggio che, lontano dall’essere regolato da norme rigide, è contaminato dalla vitalità e le varietà culturali. Tra le opere l’attesissimo video The Column di quasi 26 minuti, coprodotto con il Jeu de Paume e già presentato in anteprima il 30 gennaio scorso presso lo studio legale NCTM di Milano, che ha per soggetto un pezzo di marmo proveniente da una cava cinese. Ripreso durante un viaggio in una nave fabbrica tra Oriente e Occidente, viene trasformato da cinque artigiani cinesi in una colonna di stile classico. Dai significati molteplici e attuali –  tra «aberrante e favoloso», come lo ha definito Paci, per il coincidere tra consegna e produzione dell’oggetto – l’opera sembra parlarci di quelle logiche di mercato attuali che, minimizzando o annullando sistemi culturali antichi, li ritrasformano a suo vantaggio. The Column comprende anche una scultura, si tratta di una colonna posta all’esterno del museo, nel circostante giardino delle Tuileries. Qui presente il suo primo video Albanian stories (7’08”, 1997) in cui la figlia di tre anni racconta la separazione dal suo paese natale come fosse una fiaba attraverso animali di fattoria e forze d’intervento militari. Mentre, più che mai attuale il video Inside the Circle (2011, 6’33”), creato durante il progetto Rave, East Village Artist Residency, in un antico cascinale sito a Trevignano Udinese, una fattoria che accoglie animali sottratti all’industria agroalimentare e in cui s’intende in modo innovativo la residenza artistica qui in stretta relazione con la natura e gli animali. 
Paci, ispirandosi al tema della naturalezza, ha filmato una donna nuda, Tiziana Pers, mentre addestra un cavallo in un recinto, un cerchio appunto. Qui la narrazione si concretizza attraverso il linguaggio fisico di Tiziana che cerca un punto di contatto con l’animale per andare oltre l’istintiva paura di questo, aiutarlo nel difficile passaggio dalla libertà alla dipendenza, a poco a poco come in una danza ancestrale si assiste ad una incredibile simbiosi tra la donna e l’animale. Tra altre opere in mostra, figurano il celebre video Centro di Permanenza temporanea (2007, 5’30”) con il quale Paci ha vinto il primo premio della XVesima Quadriennale di Roma e i dipinti della serie Secondo Pasolini che vanno dal 2006 al 2008.
Abbiamo incontrato Adrian Paci durante il vernissage al Jeu de Paume. Ecco quello che ci ha raccontato.
È la tua prima mostra in Francia. Cosa ti aspetti ?
«Cosa mi aspetto? Mi aspetto una risposta! È lo spettatore che aggiunge senso all’opera, che la rende viva, che attiva l’elemento vitale che il lavoro porta in sé. Questa mostra non deve essere vista come un unico lavoro ma un insieme di lavori e in ognuno di questi se ne scoprono altri. Insomma, un organismo vitale in cui ognuno trova una risposta».
Nel video The Encouter (2011, 22′) una semplice stretta di mano diventa un evento. Qui siamo in una piazza di Scicli, in Sicilia, dove stringi la mano ai passanti entusiasti di prendere parte a questa finzione, che in modo spontaneo ne approfittano per fotografarti col cellulare o per scambiare con te due parole anche a rischio d’interrompere la fila. Cosa ti fa dire che è questa la cosa giusta da fare? 
«Cerco degli elementi in cui risiede una vera potenzialità, in cui c’è qualcosa da indagare, che mi stupiscono, qui è il semplice gesto della stretta di mano. È un gesto antico ma contemporaneo, lo troviamo nel nostro quotidiano come nei momenti più difficili della nostra esistenza. Nell’Italia del sud la piazza non è solo luogo di passaggio ma di incontri e di scambi, inoltre la scelta della piazza non è stata casuale, di questa in particolare mi piaceva lo sfondo, l’insieme dei palazzi e il loro lato bello e decadente, ma soprattutto perché non è un luogo contaminato da significati particolari, non è mediatizzato, questo perché non volevo dirigere lo spettatore verso un significato preciso. Certo dietro c’è stata una precisa organizzazione, ma non si può prevedere tutto, così c’è stato spazio anche per l’improvvisazione». 
Nel video Vajtoica (2012, 9’10”) si assiste ad una messa in scena tra te e una prefica albanese. Questa ti accoglie in casa per cantare lamenti funebri a te che te ne stai comodamente allungato con gli occhi chiusi e le mani conserte in attesa che la nenia finisca per poi salutare la donna calorosamente. Non è né un documentario né una fiction, siamo per così dire nella metafinzione in cui tu sei l’elemento di rottura, colui che provoca un effetto di straniamento, suscitando tanto stupore quanto risa. Spesso ti soffermi sui momenti di transito. Perché?
«Quello che amo è la semplicità delle cose perché è li che vedo una pluralità di letture e significati diversi. Non ho la chiave di lettura del mio lavoro che secondo me deve rimanere aperto agli spettatori. In Vajtoica, si narra della morte come momento forte della vita, in cui si realizza il nostro progetto finale. La prefica aiuta con la sua bella voce a evitare un trauma, anche se è una finzione serve a superare un momento estremamente crudele della realtà. Mi soffermo sui riti perché questi servono ad accompagnare la rottura che avviene inevitabilmente nel passaggio da uno stato ad un altro.».

Nel video The Last Gestures (2009, proiettato su quattro monitor) si vede una giovane sposa e la sua famiglia alle prese con gli ultimi saluti prima del matrimonio. Come nasce quest’opera?
«Le riprese di questo video fanno parte di un archivio al quale io ho attinto e da cui ho estrapolato gli ultimi gesti che si scambiano i familiari della sposa e questa, al di là del fatto che la famiglia si mette in posa perché ripresa, per cui quei gesti sono per così dire condizionati dalla presenza della videocamera. Inoltre, era la prima volta che una videocamera entrava in quella casa, qui si filma un dramma, quello del passaggio dalla ragazza alla donna che lascia la casa paterna per entrare in quella del marito. In quei momenti di intimità la dolcezza delle carezze che la famiglia fa alla sposa si contrappone alla rigidità del viso della ragazza…lei è un oggetto».
Non ti consideri un “artiste engagé” ma le tue fotografie parlano di emozioni, della condizione umana e di quando viene messa in pericolo o ostacolata. Quanto ne vale la pena?
«Alla fine vale sempre la pena di fare le cose, al di là dell’effetto che avranno. Le mie foto sono costruite, c’è una messa in scena anche se non sono un attestazione di una visione univoca. Comunque anche se lavoro con le immagini non mi considero certo un fotografo cronista, ma non per questo non sento la necessità di parlare di un disagio, di qualcosa che mi turba, da qui creo, insomma realizzo le cose che immagino. L’emozione? Sì è importante ma non mi piace entrare nel sentimentalismo».

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