20 luglio 2013

Crowdfunding, limiti e virtù. Tre domande a Cristiano Berti, che sceglie il finanziamento dal basso per lanciare il suo nuovo progetto, “Gaggini”

 

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dettaglio della Fuente de la Noble Habana, di Giuseppe Gaggini, 1837 circa, L'Avana

Torinese, classe 1967, incontriamo qui Cristiano Berti in occasione di un suo nuovo progetto, ispirato a una sorta di “convergenza” tra due poli opposti dell’arte: l’opera e il materiale che la compone, più specificatamente una statua neoclassica a L’Avana e una cava di marmo, abbandonata da oltre un secolo, che era stata data in concessione allo scultore Giuseppe Gaggini. C’è in Cristiano Berti, nel suo nuovo progetto, la volontà quasi pindarica di riunire attraverso una serie di “panorami interattivi” queste due geografie distanti, con una serie di fotografie che saranno disposte in un ambiente immersivo e con le quali il pubblico potrà interagire in una modalità gestuale. Saranno disposte, e qui il futuro è d’obbligo, se nei prossimi mesi, sulla piattaforma Indiegogo, si raggiungerà una cifra di 11mila e 500 dollari. Anche qui, insomma, il crowdfunding apre nuove possibilità, specialmente per l’arte contemporanea. Ne abbiamo parlato con Berti, per conoscere meglio il progetto e per capire fin dove si può arrivare con questa nuova modalità di “committenza”. 
Ci racconti com’è nato il progetto “Gaggini” e come si pone la tua poetica, anche in base all’idea dei “Cicli Futili”?
«Gaggini è frutto del caso. Nel 2007 mi sono imbattuto nella sua figura durante una vacanza a Cuba, a distanza di molti anni dalla prima volta, quando era accaduto per motivi di studio.
Ho pensato che i due luoghi in cui aveva lasciato un segno del suo lavoro, la piazza con la fontana che vedevo in quel momento all’Avana e la cava di marmo abbandonata, che avevo visto tanto tempo prima, ricongiunti, potevano dire qualcosa. Dopo aver buttato giù una prima idea, a caldo, ci ho messo molto a decidermi e solo nel 2012 ho rotto gli indugi. Oggi sono a più di un anno di lavoro preparatorio e finalmente la cosa si concretizza. Non sono per niente fiero di averci messo così tanto tempo, ma ora ho le idee più chiare e ho sgombrato il campo da alcuni ostacoli, a parte quello economico che affronto con questo metodo per me nuovo.
L’idea dei “Cicli Futili” mi è venuta riflettendo su cosa mi spingeva a concepire questo lavoro come un ibrido tra ricerca artistica e ricerca storica. Nei miei lavori precedenti c’è stato spesso un taglio investigativo-documentario, ossia una indagine basata sulla ricerca, l’analisi e la classificazione di documenti. Per arrivare ad esiti in cui di tutta questa ricerca non si vede più nulla. Se ne sente appena l’odore o avverte il peso, quasi un macigno, del potersela immaginare nella sua frustrante complessità.
Con Gaggini, e in generale coi “Cicli Futili” (di cui vedo vagamente i possibili ulteriori sviluppi, ma penso ce ne saranno) vado un passo oltre. Qui mi impegno in una ricerca storica di prima mano, su documenti d’archivio. Forse ho bisogno, semplicemente, di allontanarmi per un po’ dal caos in cui siamo immersi, e da questo punto di vista chiudersi in un archivio storico equivale a raggiungere una cava abbandonata a 2100 metri di altitudine. Poi c’è l’elemento visivo, quello dei panorami interattivi, e anche qui si tratta di un passo oltre le mie consuetudini d’artista, che faccio con una certa curiosità e nella consapevolezza che questo aspetto del lavoro è il più vulnerabile: chissà dove saremo anche solo tra un paio di anni. Ma non potevo rinunciare ad interagire con le immagini e farsene in qualche modo avvolgere, per un lavoro partito con i presupposti di cui ho parlato all’inizio».
Crowdfunding, una delle pratiche più diffuse per la sovvenzione dell’arte e di progetti creativi. Come ti è venuta l’idea di utilizzarlo per “Gaggini”, e perché hai scelto la piattaforma Indiegogo?
«Ho scelto il crowdfunding perché non potevo fare altrimenti. Lasciando da parte discorsi retorici, se avessi trovato un finanziatore unico sarebbe stato senz’altro più comodo. Tuttavia, mano a mano che ci pensavo, la raccolta dal basso mi è sembrata una opportunità non solo per risolvere un problema, anche per fare i conti con le mie idiosincrasie e resistenze. Parlo innanzitutto per me, e generalizzo: nessuno si offenda ma non mi pare che gli artisti visivi siano molto generosi finché il lavoro non è bello e fatto ed è ora di prendere, si spera, gli applausi. Non sveliamo le carte, non mostriamo i work in progress quando lo sono davvero, non ci presentiamo nella fase delicata in cui l’idea è ancora tutta da realizzare. Eppure per fare del crowdfunding bisogna trovare il modo di parlarne, di questa idea, di parlare chiaro e in un certo senso farsi piazzisti delle proprie idee. Questo fa sì che la situazione sia nuova, interessante e in qualche misura istruttiva. Non sto dicendo che questa modalità sia preferibile, o che ci sia qualcosa che non va nel lavorio appartato dell’artista. Dico che il crowdfunding mette alla prova un certo modo di relazionarsi col mondo, da parte dell’artista, e gli impone di abbandonare alcune strutture protettive: ogni tanto può essere un esercizio utile e benefico per tutti.
Indiegogo è una piattaforma internazionale, cosa che ho ritenuto preferibile considerato il taglio transoceanico del mio progetto. Credo sia un po’ sotto Kickstarter, quanto a visitatori, ma è maggiormente accessibile a chi risiede in Paesi diversi da USA e Gran Bretagna e consente raccolte flessibili, in cui centrare l’obiettivo finale non è condizione imprescindibile per ottenere il finanziamento. Tutto qua. Magari ci risentiamo tra due mesi, dopo che ho fatto esperienza…».
Pensi che il crowdfunding possa restituire una dimensione “democratica” all’arte? E che, associando il contemporaneo all’epoca di Gaggini, possa essere davvero considerato una sorta di nuova committenza sotto altre forme di sostentamento o credi sarà una moda passeggera dettata dalla crisi?
È curiosa questa tua associazione del crowdfunding a Gaggini, non ci avevo pensato. In effetti la storia della fontana all’Avana è soprattutto la storia di una committenza, di un mecenate che ordina una scultura al di là dell’oceano. Bei tempi. Quanto alla dimensione democratica, sì, penso che un contributo il crowdfunding possa darlo. Impone, come dicevo, di parlare un linguaggio accessibile a molti. Non si tratta di dire cose sciocche o banali, si tratta di dire cose che possano essere comprese. Mi imbatto spesso in interviste a colleghi che sono stucchevoli, insincere, piene di arzigogoli, di letture affrettate e maldigerite, letture fatte apposta per ben figurare con un paio di citazioni azzeccate. E godo invece quando sento gli artisti che parlano sinceramente, che parlano semplice, che dicono cose e non si atteggiano a oracoli sentenziosi. Ecco, penso che il crowdfunding da questo punto di vista non perdoni: parla come mangi, o non verrai capito.
Se sia una moda non saprei dirtelo, del resto io sono un novizio come s’è capito. Da noi risente penso di una caratteristica comune ad altri ambiti. Noi dipendiamo da figure paterne, lo Stato, la Regione, la Fondazione o il Progetto-finanziato-dall’Europa: tutti soggetti da invocare e, spesso, maledire. Siamo tutti, per abitudine acquisita, un po’ fermi ad osservare il cielo sperando che piova qualcosa. Avere a che fare con una audience più ampia, e ricavare da lì le risorse per poter continuare a lavorare, è insieme una opportunità e un rischio. Io, ad esempio, rischio di passare i prossimi due mesi a “muovere” la campagna di crowdfunding (gli americani dicono che non bisogna adottare il metodo “spray and pray”) e controllare come va la raccolta, senza potermi concentrare sul lavoro da fare. Ma senza questa opzione ora sarei al palo e quindi meglio così».

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