30 marzo 2012

“Ginnastica dei ciechi- La corsa al cerchio”, da stasera al Giardino di Sant’Alessio a Roma. 3 domande a Marzia Migliora

 

di

Marzia Migliora, #04 dalla serie Lo spazio vuoto tra l’uno e l’altro, 2012, tecnica mista, 29,8x 19 cm. Courtesy dell’artista e della Galleria Lia Rumma, Milano/ Napoli.

Prima installazione site specific di Marzia Migliora per il giardino romano di Sant’Alessio, nell’ambito di un progetto di Public Art intitolato “Toccare l’arte”, curato da Chiara de’ Rossi, Marina Cimato e Anna Buttici. Un luogo suggestivo della capitale, di grande valore storico, architettonico e naturalistico che, attraverso il comune e la Fondazione Roma, vuole essere rivalorizzato. In collaborazione con la Probono Onlus, che ha adottato il giardino in occasione di “Toccare l’arte”, la manifestazione vuole essere una sorta di modalità per una riflessione sull’arte e la cultura “accessibile” a tutti, abili e diversamente abili.
Tre installazioni realizzate ad hoc per l’occasione: undici cerchi illuminati (Rolling Hoops), una scritta in acciaio che ostacola la vista sulla città (Posso solo evadere con le palpebre serrate) e un’installazione sonora udibile tra le 15.00 e le 17.10 di ogni giorno, saranno visibili fino al prossimo 30 maggio. Completa il progetto un libro di disegni inediti della Migliora e fotografie di Camilla Borghese, che contiene anche il testo di Elena Magini in braille. 
Com’è nato il progetto “Ginnastica dei ciechi – La corsa al cerchio”?
«Per Ginnastica dei cechi- la corsa al cerchio, la ricerca prende avvio dalle suggestioni ricevute dal luogo ovvero il Giardino di Sant’Alessio, sul colle Aventino in Roma. 
Ho focalizzato la mia attenzione su alcuni eventi che hanno eletto il colle dell’Aventino, nei vari periodi storici, come teatro delle lotte per la libertà, come in occasione delle Secessio Plebis di epoca romana, e successivamente per la Secessione dell’Aventino, protesta messa in atto nel 1924 da alcuni deputati contro il governo fascista.
Ho trovato interessante inoltre che nell’ottocento il Giardino fosse parte di un Istituto per ciechi. Negli archivi di questo istituto, ho trovato Il Regolamento generale e Regime interno dell’istituto ciechi in Roma, in cui in duecentoventi punti sono elencate le rigide norme a cui ospiti e collaboratori erano tenuti ad attenersi. Nello stesso archivio ho trovato delle fotografie scattate nel giardino, che mostrano i ragazzi ciechi durante i momenti di ricreazione, in queste immagini il giardino di Sant’Alessio diventava spazio di libertà, gioco e interazione con gli altri». 
É stato complesso pensare a un progetto per uno spazio che un tempo era parte di una struttura per non vedenti? Quali sono state le implicazioni?
«Ad oggi il giardino è frequentato oltre che dalle persone del quartiere e da turisti della capitale da persone mancanti dei requisiti necessari per far parte della comunità: casa, lavoro, denaro, pasto.
E’ usuale nel giardino assistere a scene di vita domestiche all’aria aperta. Immigrati e homeless riposano sul manto erboso, sostano, mangiano, lavano i panni nella fontana del giardino mettendo in scena la mancanza.
L’intero intervento installativo affonda le sue radici sul concetto di mancanza, la cecità è una condizione di palese mancanza, la reclusione implica mancanza di libertà, la sosta nel giardino di persone senza fissa dimora ci mette davanti ad una grave mancanza delle nostra società».
Cosa significa per un artista “vedere”?
«Rispondo alla domanda con la frase: Posso solo evadere con le palpebre serrate.
Queste parole sono parte dell’opera: Libero come un uomo, una delle tre istallazioni site specific realizzate al giardino di Sant’Alessio.
Pensando proprio alle imposizioni, ho tentato di chiudere fisicamente il giardino, anche sul lato in cui in realtà dovrebbe aprirsi alla vista su Roma. E’ nato così il primo intervento installativo: Libero come un uomo. Ho istallato una rete che occulta parzialmente il panorama, visibile solo grazie allo spazio lasciato libero da alcune lettere intagliate nella stessa. Lettere che compongono una citazione di Samuel Beckett “Posso solo evadere con le palpebre serrate”. 
Le palpebre serrate sono per me metafora del sonno, del sogno, della morte, ma anche richiamo diretto alla cecità. Su questa condizione ho riflettuto, volendo mettere in luce quali siano i limiti dei vedenti che spesso non vanno oltre al dato visivo. Secondo me è l’immaginazione a permettere in primis l’evasione, dove il limite fisiologico della vista è superato per accedere ad uno strato più profondo di esercizio della libertà, bypassando le sovrastrutture culturali e sociali».

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