12 gennaio 2015

I tesori dell’arte? Nelle mani della Mafia. Una lunga inchiesta di Repubblica svela retroscena di traffici e ricavi, e mette sul piatto nomi e cognomi

 

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Una cosa è certa e stavolta, visto che è messa nero su bianco da un quotidiano nazionale, forse qualcuno vi crederà, è che il commercio illecito di opere d’arte è il segmento più cospicuo dei guadagni delle mafie. Da qui si può partire, e capire, perché l’ultimo boss mafioso di Cosa Nostra ancora latitante, Matteo Messina Denaro, pare certamente legato a una rete di antiquari, uomini d’affari, imprenditori siciliani e – mica uno scherzetto – ad alcuni  curatori dei maggiori musei d’arte del mondo. 
Repubblica, oggi, tira fuori nomi e cognomi di un tesoro “ripescato” in Svizzera e che tra pochi giorni tornerà in Italia, messo insieme da Gianfranco Becchina, noto mercante di Castelvetrano e oggi proprietario di due cementifici e dell’etichetta “Olio Verde”, che a Basilea aveva anche una galleria, la Palladio Antique Kunst, dove avrebbe raccolto e commerciato una serie di tesori, questi sì, pescati anche nel mare delle coste vicino a Trapani. Una figura chiave il signor Becchina (un cognome, un programma) nella cui base i carabinieri del Nucleo per la tutela del patrimonio culturale hanno raccolto qualcosa come 13mila documenti tra fatture, bolle di trasporto e lettere indirizzate agli acquirenti, nomi e cognomi di tombaroli strapagati.  Indagato diverse volte, anche sotto il mandato di Paolo Borsellino, tutti i reati contestati a Becchina sono finiti in prescrizione, e nel frattempo l’uomo continua a vivere in vero e proprio feudo alle porte di Castelvetrano.  E con una ramificazione incredibile di agganci negli Stati Uniti: non è un caso che il coperchio di un sarcofago denominato “La Bella Addormentata” sia stato ripescato nel Queens, a New York, e che stesse per essere venduto per 3 milioni di dollari al mercante d’arte Noriyoshi Horiuchi, in stretti legami con Gianfranco Becchina. Affari con tutto il mondo, afferma l’inchiesta di Repubblica, firmata da Valeria Ferrante, Valeria Teodonio e Elis Viettone, che hanno anche raccolto la testimonianza dell’archeologo Tsao Cevoli: «Becchina ha trattato affari con i maggiori musei del mondo, tra cui il Louvre, il Museo di Monaco, il Metropolitan di New York, il museo di Boston, il Ninagawa di Hurashiki in Giappone, l’Ashmolean di Oxford, il museo di Utrecht, il Museo di Toledo nell’Ohio e molti altri. E ha rifornito persino università prestigiose come la Columbia, quella di Washington, di Kassel, di Princeton e di Yale. Tra i suoi acquirenti figurano anche i coniugi Shelby White e Leon Levy, miliardari americani ai quali è intitolata un’ala greco-romana del Metropolitan Museum, finanziata con 20 milioni di dollari».
L’uomo del boss, insomma, colpiva ovunque dalla sua Sicilia, la terra più ricca non solo di tesori archeologici ma anche di predoni e dove, afferma Luigi Mancuso capitano dei carabinieri Tpc Palermo «Solo nel 2013 si sono sequestrati 7mila e 858 reperti archeologici per un ammontare stimato in oltre 2 milioni di euro». 
Vasi, crateri di epoca greco-romana, monete bizantine, greche e romane, vari elementi metallici affiorano quasi “spontaneamente” tra una discarica abusiva di rifiuti e qualche pascolo, e visto che la sorveglianza è praticamente nulla anche nei siti autorizzati agli scavi, è pressoché impossibile anche definire quanto e quando vengano depredate queste aree. La voce fuori dal coro, invece, è quella del direttore del Parco Archeologico di Selinunte, Giovanni Leto Barone, che spiega che la struttura (geograficamente collocata nel territorio più a rischio) «è interamente protetta e a guardia, nei luoghi più strategici, sono dislocati 70 custodi. Anche se in realtà avremmo bisogno di 120 sorveglianti, ma le nostre risorse economiche attualmente non ce lo permettono».  Insomma, difficile districarsi nella nebbia dell’illecito dell’arte, anche se qualche verità di fondo, amara, c’è.
E ce la ricorda Tomaso Montanari, che a commento dell’inchiesta scrive: “Cosa Nostra ha capito ciò che lo Stato ancora non ha capito: che il patrimonio culturale è il territorio, e che governare il patrimonio vuol dire esercitare la sovranità anche sul piano simbolico. L’unico antidoto a questa ennesima eclissi di Stato è costruire più Stato. Per esempio avendo il coraggio di ripensare radicalmente la folle autonomia del patrimonio culturale siciliano: che è l’unico che non dipende dal governo nazionale, ma dalla Regione Sicilia. Un regime disastroso.In un Paese che ha deciso di conteggiare l’economia delle mafie nel Pil, è urgente far capire che nel prodotto interno lordo della democrazia quei reperti recuperati possono giocare un ruolo importante: creando lavoro, consapevolezza, dignità. Bisogna cominciare a tessere una narrazione della sconfitta di Cosa Nostra sul terreno dell’arte e dell’archeologia. Alla bandiera nera del Caravaggio rubato dalla mafia in una chiesa di Palermo nel 1969, e mai più recuperato, bisogna opporre un progetto in cui il patrimonio generi liberazione culturale e aumenti la qualità della vita dei cittadini”. Belle parole, come sempre. E meno male che un po’ di intervento, almeno da parte dei carabinieri, c’è. Ma non sarà mai abbastanza, senza la costruzione di altre basi. Civili, di profondo rispetto, e culturali. 

1 commento

  1. Incredibile la rete di connivenze e compiacenze, scientemente sostenuta, a favore di un traffico mondiale che ne ricorda molti altri in altri settori e con altre ‘merci’.
    Non c’è la volontà,impedita dai molti,troppi interessi in gioco,per ‘mettere il dito nella piaga’ e tentare di sanare e regolamentare,e controllare,il settore.
    Un altro lungo discorso…

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