-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
I giorni dell’abbandono: crollo e rinascita di una Medea contemporanea
Teatro
È una Medea contemporanea a pieno titolo la donna, madre e moglie, ferita e abbandonata, del romanzo di Elena Ferrante I giorni dell’abbandono. Ma a differenza dell’eroina di Euripide, la protagonista raccontata dalla nota scrittrice, non ha bisogno e non cerca di vendicarsi del fedifrago sopprimendo i figli e l’amante del marito. Riesce a riscattarsi ritrovando la sua dignità, la libertà di essere sé stessa, di rigenerarsi dopo aver subìto la dolorosa separazione. Nell’adattamento, dal libro alla scena, di Gaia Saitta, regista, traduttrice – insieme a Mathieu Volpe – e interprete dello spettacolo Les jours de mon abandon / I giorni dell’abbandono (ospitato al Teatro Studio Melato del Piccolo di Milano, anche coproduttore insieme al CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, e altre teatri europei), dalla Napoli del romanzo ci si sposta a Bruxelles dove la donna si è trasferita per seguire il marito ingegnere, rinunciando alla propria realizzazione, al lavoro, alle aspirazioni giovanili.

Ma la città dove si svolge la vicenda non ha confini. Ovunque c’è un uomo che lascia una donna, moglie o compagna, per essersi innamorato di un’altra molto più giovane, causando traumi fisici e mentali. Li vive in diretta Olga, la protagonista, condividendoli con il pubblico, parlandogli, cercando una complicità femminile con l’invito a sedersi all’interno della scena rivolto ad alcune spettatrici con le quali condividerà gesti e confidenze a voce alta.

Il set scenografico – un casa abitata dalla donna con i due figli e un cane vero -, è genialmente concepito – da Paola Villani – come spazio simbolico in cui la protagonista è prigioniera e non si riconosce più in nessun angolo: uno spazio aperto simile a un cantiere, immersivo, modulato da intelaiature di ferro a rappresentare porte, pareti e stanze di una grande casa disordinata dove ci si muove tra oggetti e mobilio domestico, sul pavimento cosparso di terra. Insieme alla protagonista, a pagare le conseguenze del dramma personale sono anche i due figli piccoli, Gianni e Ilaria (Jayson Batut e Flavie Dachy) testimoni della rabbia feroce crescente e della violenta mutazione della madre dopo la notizia della rottura da parte del marito giunta tramite una sua sbrigativa telefonata.

Da lì in avanti, e con salti temporali che ci raccontano alcuni momenti della coppia e il loro ménage, assistiamo al crollo emotivo della donna, allo smarrimento, al vuoto, alle paure riaffioranti, fino all’abbrutimento anche volgare e grottesco, alla perdita del contatto con la realtà. A evocarla è un paesaggio sonoro – del compositore Ezequiel Menalled – fatto di respiri, battiti cardiaci, rumori, e con accenni a due canzoni – Fotoromanza di Gianna Nannini con la frase “Questo amore è una camera a gas”, e Arrivederci amore ciao di Caterina Caselli – le cui parole accompagnano lo stato emotivo in cui vive.

Alternando l’italiano al francese – la lingua con la quale lei parla con l’uomo e coi figli -, tradendo così un’origine anche caratteriale che la fa essere aggressiva e fragile contemporaneamente, razionale ed emotiva, Gaia Saitta affonda con crudezza, profondità e verità nella psicologia della donna immersa tra le voragini del dolore e del «vuoto di senso», in un «paesaggio di detriti» a cui Ferrante ha dato l’icastico nome di «frantumaglia». La sua è una interpretazione realistica, densa di dettagli, di posture viscerali, di gesti espressivi, di silenzi eloquenti, che sfociano nel raggiungimento della consapevolezza di sé, di donna non subordinata, riscoprendo il desiderio di vivere, e la forza di ricomporre i frantumi interiori in una nuova identità. Che necessita infine della demolizione di tutto ciò che finora era stato costruito. A partire dalla casa.

Plasticamente e fisicamente, la bellissima e potente scena finale si anima di spettatori, invitati, insieme a lei, a smantellare la struttura domestica, partecipando così al ritrovato senso della sua nuova esistenza. E allora ecco i due ragazzi proporre di giocare al mare. Si stendono teli, si portano ombrelloni, secchielli, cappelli, bevande mentre un’aria festosa riempie il teatro accompagnata dalla canzone estiva di Edoardo Vianello Pinne fucili e occhiali.

«I giorni dell’abbandono celebra l’inutilità dell’orgoglio – scrive Saitta -. Olga perdona l’uomo e così facendo ne fa crollare il palazzo. Ecco il vero abbandono di cui siamo testimoni. Lungi dall’essere un momento negativo, abbandono significa liberazione, dal ruolo sociale e da ogni oppressione. Tutto è da rifondare: il sé, il mondo intorno, le parole, la grammatica. Non ho avuto scelta, ho sentito il bisogno di raccontare questa storia».

Dal 6 all’8 marzo a Udine, Teatro Palamostre, Teatro Contatto; a Namur (F), Théâtre de Namur, dal 17 al 19 aprile; a Maubeuge (F), Le Manège, Atelier Renaissance, il 24 aprile; a Marsiglia (F), Théâtre Joliette, dal 28 al 30 aprile.
