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In Scena è la rubrica dedicata agli spettacoli dal vivo in programmazione sui palchi di tutta Italia: ecco la nostra selezione della settimana, dal 17 al 23 febbraio.
Danza e Teatro
Le quattro stagioni di Anne Teresa De Keersmaeker
Tra le opere più celebri del repertorio internazionale della musica classica, Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi sono un’ode alla natura dalla trama stratificata. È proprio la multidimensionalità della composizione musicale a ispirare il processo creativo de Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione, l’ultima collaborazione tra la coreografa Anne Teresa De Keersmaeker – figura di culto della danza contemporanea mondiale – e il coreografo Radouan Mriziga.
A partire dalla registrazione del lavoro di Vivaldi realizzata dalla violinista e storica collaboratrice di Rosas, Amandine Beyer, insieme al suo ensemble Gli Incogniti, l’impresa che De Keersmaeker e Mriziga intraprendono consiste nel cogliere l’opera nella sua complessità per esporre l’originalità di questo capolavoro barocco e le emozioni che suscita. Trasformando la partitura musicale in schemi di movimento geometrici e astratti, i due artisti combinano i loro approcci alla danza per trasmettere tutte le sfumature mentre sulla scena i quattro danzatori, alternando voli selvaggi, dolce malinconia ed euforia bucolica, ne esplorano separatamente i capitoli, lasciando emergere molteplici voci, punti di intersezione e tensione.
A Roma, 19 febbraio, Auditorium Parco della Musica, per il Festival Equilibrio; il 22 e 23 alla Triennale di Milano, per l’ottava edizione di FOG Performing Arts Festival.

Tre capolavori musicali nella Trilogia dell’estasi
Alla scena madre del film di Stanley Kubrik Eyes Wide Shut e a quell’immaginario si ispira il coreografo catanese Roberto Zappalà ne La trilogia dell’estasi, con la collaborazione drammaturgica di Nello Calabrò (il 19 febbraio, al Teatro Ariosto di Reggio Emilia), che affronta in un’unica sera tre fra le più celebri composizioni dell’ultimo secolo e mezzo: Il Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, il Boléro di Maurice Ravel e Le Sacre du printemps di Igor’ Stravinskij.
Chiave della trilogia è il lavoro sullo spazio, nel quale si va creando un “dispositivo scenico” che, volta per volta, limita, amplifica, e modifica la coreografia, anche questa curata da Zappalà. Un unico set scenico ospita la creazione, che al contempo racchiude rispettivamente l’esclusione, il corteggiamento e l’eros nel Prélude à l’après-midi d’un faune; l’inclusione, il vizio e la lussuria nel Boléro e infine la persecuzione e il sacrificio ne Le Sacre du printemps.
Come sempre per Zappalà l’accento è sulle relazioni umane, sui rapporti tra uomini e donne: negati, esaltati, violati. La scena richiama un ambiente urbano in penombra, mentre sul palco volteggiano figure incappucciate o con il volto celato da una maschera; un richiamo alla società contemporanea in cui l’uomo si ritrova ogni giorno a fare i conti con verità nascoste allo sguardo, in una “riflessione” coreografica sulle derive della società contemporanea.

Le tre sorelle iraniane
Lo spettacolo trae ispirazione dalla vita di Sadaf Baghbani, una combattente per la libertà iraniana che ha subito oltre 150 ferite da arma da fuoco. Attraverso un omaggio alle Tre sorelle di Čechov, il racconto di Sadaf e delle sue sorelle offre una visione franca e senza filtri della vita delle donne in Iran e della tragedia della loro sistematica oppressione.
«Due anni fa ho abbandonato il mio Paese – racconta il regista – e tutto ciò che ho fatto e subito per oppormi al regime. Ora continuo a battermi per la libertà attraverso questa rappresentazione. Unisciti a me e a Sadaf nella nostra lotta». Aiutato dalla musica rap persiana, linguaggio ufficiale della nuova generazione iraniana, il regista Ashkan Khatibi vuole ribadire l’ingiustizia sistematica inflitta alle donne iraniane. «Essere donna in Iran è una battaglia continua», ha spiegato il regista. «Si può rischiare la vita semplicemente scegliendo di non vestire l’hijab. Infatti, in questa storia, il fantasma è la vita stessa, che manca. La libertà di parola, di cantare, di ballare, amare, baciare. Ma sono fantasmi anche le vite spezzate nelle strade durante le rivolte del movimento “Donna, Vita, Libertà”. La protagonista del mio spettacolo ha più di 150 proiettili di plastica nel proprio corpo, è arrivata in Italia per curarsi e da quando ha lasciato il suo Paese cerca di dialogare con le sue sorelle e con il padre. Cerca di riempire i vuoti della propria esistenza».

“Le mie tre sorelle”, drammaturgia e regia Ashkan Khatibi, con Sadaf Baghbani, Nazanin Aban, Saba Poori, Sahba Khalili Amiri, costumi Delshad Marsous, assistenti di scena Alma, Ava, Negar, S.A, traduttrice Parisa Nazari, coordinatrice del progetto Negar Mokarram. Produzione gruppo artistico Charpayeh (Scagnell). Spettacolo in persiano e in italiano (sovratitoli in italiano). A Torino, TPE Teatro Astra, il 18 e 19 febbraio.
A Porte chiuse. L’inferno sono gli altri
Il non luogo, l’inferno, diventa lo scenario di questa pièce teatrale scritta da Jean Paul Sartre nel 1944. Il dramma ha inizio con un Valletto che introduce in una stanza un uomo chiamato Garcin. La stanza non ha nulla: né finestre né specchi. Si capirà presto che è un luogo dell’inferno. In seguito, due donne raggiungeranno Garcin: Inès e Stella. Attendono tutti il momento della tortura, ma nessun altro entra nella stanza. Pian piano i personaggi comprendono di essere lì per torturarsi a vicenda, con domande e commenti sulla loro vita precedente, sui delitti, miserie, desideri e passioni. I personaggi sono in grado di vedere ciò che accade sulla Terra nella misura in cui ciò riguarda ancora loro, ma a mano a mano la connessione si fa più labile e le visioni scompaiono, lasciandoli da soli con loro stessi e con gli altri due. La porta però è sempre rimasta aperta ma nessuno dei tre sarà in grado di lasciare la stanza, imprigionati nella rete di rapporti che hanno creato.
A porte Chiuse. L’enfer, c’est les autres, messo in scena dalla regista Alessia Tona (a Roma, Teatro Lo Spazio, dal 21 al 23 febbraio), rappresenta uno spaccato feroce e graffiante che prende forma in un inferno personale da cui noi vi è via d’uscita. Non esiste remissione dei peccati per i protagonisti di quest’opera, ma solo un lento calvario che durerà per sempre.

Il Ministero della Solitudine
Lo spunto dello spettacolo nasce da una notizia di cronaca politica internazionale. Nel gennaio 2018, la Gran Bretagna ha nominato ufficialmente un ministro della Solitudine, il primo al mondo, per far fronte ai disagi che questa può̀ provocare a livello emotivo, fisico e sociale. L’anno successivo viene inaugurato il relativo Ministero, «istituzione dalla natura politicamente ambigua e dalle finalità̀ incerte».
A partire da questa vicenda, la compagnia lacasadargilla inaugura una riflessione su un luogo – reale e immaginifico – capace di operare con linguaggi e dispositivi narrativi intorno ai desideri, ai rimossi e alle immaginazioni di un’epoca che sempre più̀ richiede di ragionare con cura sulle comunità̀ dei viventi.
Una scrittura originale di, con e per cinque attori, strutturata per flash, incontri, incidenti e costituita da partiture fisiche all’orlo di una danza. Una storia che indaga la solitudine innanzitutto come incapacità̀, come difficoltà del desiderio – oggetto non controllabile per definizione – a trovare una corrispondenza, avendo in sé una speranza troppo alta, spericolata o eccessiva, per potersi mai realizzare. O ancora quella solitudine in cui si sprofonda perché́ ciò̀ che è successo è irrecuperabile, e non interessa a nessuno.

“Il Ministero della Solitudine”, uno spettacolo di lacasadargilla, parole di Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano, drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi, regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano, drammaturgia del movimento Marta Ciappina, spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni, luci Luigi Biondi, costumi Anna Missaglia. Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello. A Roma, Teatro Vascello, dal 18 al 23 febbraio.
Cinque difficoltà per chi scrive la verità
Lo spettacolo di ErosAntEros prende avvio dal saggio politico-letterario di Bertold Brecht Cinque difficoltà per chi scrive la verità: una sorta di manuale di strategia militare attraverso cui enunciare le regole programmatiche per dire la verità ai deboli e combattere la menzogna dei potenti. ErosAntEros fonde questo saggio con alcune poesie dello stesso Brecht, scegliendo una forma che si sviluppa attraverso un piano sonoro – la performance vocale di Agata Tomšič e il live electronics di Davide Sacco – e un piano visivo affidato alla proiezione di immagini del fotografo Michele Lapini, sensibile osservatore delle questioni sociali, ambientali e politiche, e il video Francesco Tedde.
Sulla difficoltà di dire la verità (a Milano, Teatro della Contraddizione, dal 21 al 23 febbraio) si compie in una relazione dialettica tra un passato carico di “adesso” affidato alle parole, e una contemporaneità che parla attraverso le immagini fotografiche. Nella convinzione che il libro è un’arma (Brecht) e che l’arte deve avere la forza di proiettarsi contro l’osservatore come un proiettile (Benjamin).

Via del Popolo, di Saverio La Ruina
Un tratto di strada di una cittadina del Sud che un tempo brulicava di attività: due bar, tre negozi di generi alimentari, un fabbro, un falegname, un ristorante, un cinema. Due uomini percorrono Via del Popolo, un uomo del presente e un uomo del passato, entrambi interpretati da Saverio La Ruina – attore, drammaturgo e regista calabrese – con il suo modo unico di narrare una storia, che spesso attinge dalla biografia personale e dalle tradizioni del Sud Italia: il primo impiega 2 minuti per percorrere 200 metri, il secondo 30 minuti. È la piccola città italiana a essere cambiata, è la società globalizzata: ai negozi sono subentrati i centri commerciali e la fine della vendita al dettaglio ha portato via posti di lavoro, distruggendo un modello sociale ancora basato sulle relazioni personali.
“A cu appartènisi”, chiedevano i vecchi paesani, ovvero “a chi appartieni?”. E dalla risposta ricavavano le informazioni essenziali sull’identità di ognuno. Via del Popolo è il racconto di un’appartenenza a un luogo, a una famiglia, a una comunità. I 200 metri di strada rappresentano anche un percorso di formazione in cui sono gettate le basi della vita futura, dal quale emergono un’umanità struggente, il rapporto coi padri, l’iniziazione alla vita, alla politica, all’amore. E non solo, Via del Popolo (a Bologna, Teatro Arena del Sole dal 18 al 23 febbraio) è anche una riflessione sul tempo, il tempo che corre ma che non dobbiamo rincorrere, piuttosto trascorrere.

Quella pulce nell’orecchio
Una macchina comica perfetta, un gioco linguistico raffinato, una trappola d’amore esilarante in cui tutti i personaggi cercano di salvare le apparenze. La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau, il re del vaudeville parigino, è una classica commedia degli equivoci. Nella rilettura del regista Carmelo Rifici è un lavoro che, pur mantenendo l’impianto originale del testo, rispettandone la vocazione, sottolinea lo spirito giocoso e selvatico della scrittura di Feydeau, ne cerca i piani nascosti, libera i singoli personaggi dal contesto borghese e valorizza i ruoli femminili.
Al centro della vicenda, vi è una moglie, Raimonda, la quale, allarmata dal comportamento piuttosto freddo e distratto da parte del marito, l’assicuratore Vittorio Emanuele, sospetta che egli abbia un’amante. Il dubbio – la “pulce nell’orecchio” – le è nato dopo il ritrovamento di un paio di bretelle, simili a quelle indossate abitualmente dal consorte, presso l’Hotel Feydeau, un albergo assai equivoco nei pressi di Parigi.
Per mettere alla prova la presunta infedeltà del marito, gli spedisce tramite un’amica, Luciana, un’appassionata e anonima lettera d’amore, cosparsa di profumo, in cui dà appuntamento all’uomo in quello stesso albergo, dove Raimonda si recherà per vedere se il coniuge cadrà nella trappola.

“La pulce nell’orecchio”, traduzione, adattamento e drammaturgia di Carmelo Rifici e Tindaro Granata, regia Carmelo Rifici. Con Tindaro Granata, Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo, scene Guido Buganza, costumi Margherita Baldoni, luci Alessandro Verazzi, musiche Zeno Gabaglio. Produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. A Brescia, Teatro Sociale, dal 19 al 23 febbraio.
Gli ultimi giorni di Anton Cechov
Ancora in scena, in prima nazionale, lo spettacolo L’incarico, testo basato sul racconto dello scrittore Raymond Carver, uno dei più amati scrittori statunitensi di racconti della seconda metà del Novecento. Dopo la sua morte, avvenuta nell’agosto del 1988 a soli 50 anni, Carver venne definito dal Times “il Čechov del ceto medio americano”. Ed è proprio a Čechov che il grande scrittore dedica il suo ultimo racconto, L’incarico.
«Vita e arte – scrive il regista Luca Bargagna – sembrano intrecciarsi nel destino di questi due grandi autori, entrambi scrittori di racconti, entrambi scomparsi prematuramente per malattie legate ai polmoni. I due autori nel tempo sono diventai punto di riferimento per generazioni di scrittori, ma hanno anche avuto la forza di imporsi nell’immaginario teatrale e cinematografico. Carver non è un autore teatrale e raramente viene fatto in teatro; ma ne L’incarico la scrittura, rigorosa e illuminata, vista la materia trattata, si riempie di una teatralità, verrebbe da dire, quasi naturale. Emerge quindi una prospettiva nuova nel mettere in scena questo racconto, che ti costringe a filtrare l’eco del teatro di Čechov, attraverso lo sguardo inconsapevole e incosciente del quotidiano».

“L’incarico”, basato sul racconto di Raymond Carver, traduzione Riccardo Duranti, adattamento e regia Luca Bargagna, con Silvia Ajelli, Claudio Di Palma, Arturo Muselli, Antonio Elia, scene e luci Angelo Linzalata, costumi Giada Masi. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Al Teatro San Ferdinando, fino al 23 febbraio; al Teatro Biondo di Palermo dal 9 al 13 aprile.
Le atmosfere noir del Calapranzi di Pinter
Lo spettacolo Il calapranzi, uno dei testi più emblematici di Harold Pinter (The Dumb Waiter), scritto nel 1957 e andato in scena per la prima volta a Londra nel 1960, fa parte della prima stagione drammaturgica dell’autore in cui quasi tutte le opere sono metafora di un solo meccanismo, quello della violenza: violenza sotterranea, quasi impalpabile, ma che manifesta con scatti improvvisi tutta la sua furia oppressiva.
I protagonisti della pièce, Ben e Gus, sono due killer confinati in uno squallido e asfittico seminterrato, nel quale attendono istruzioni sulla vittima designata. Un misterioso mandante comunica con loro attraverso un montacarichi, il calapranzi appunto. Tra l’autoritario nervosismo di Ben e la pacata rassegnazione di Gus si configura una situazione surreale, che assurge a metafora della condizione umana. Tra echi kafkiani e riflessioni filosofiche, assistiamo a una sorta di “varietà” dell’assurdo, nel quale possiamo riconoscere tutte le preoccupazioni e le angosce della nostra epoca.
Lo spettacolo (prodotto dal Teatro Biondo Palermo, e in scena a Milano, Teatro Franco Parenti, dal 18 al 23 febbraio), nella traduzione di Alessandra Serra, con l’interpretazione di Dario Aita e Giuseppe Scoditti e con le scene di Valentina Console, il regista Roberto Rustioni ripropone le atmosfere noir create da Pinter.

Quel male oscuro
Il male oscuro narra la vicenda autobiografica di uno scrittore in crisi segnato dai sensi di colpa per la morte del padre. Il romanzo di Giuseppe Berto è considerato un caposaldo della letteratura italiana, un successo editoriale che nel giro di una settimana si aggiudicò i premi letterari Viareggio e Campiello.
«Il male oscuro – spiega il regista Giuseppe Dipasquale – colpisce per la sua attualità, per l’analisi accurata di un malessere profondo, nel quale oggi si riconoscono molti di noi. Bepi, l’io narrante, è uno scrittore che ha la sensazione di non riuscire a governare la propria vita. Sospinto dagli eventi, dall’incapacità di superare il trauma della morte del padre, di relazionarsi autenticamente con i familiari, la moglie, l’amante, sprofonda nel baratro della depressione. Decide quindi di affidarsi alla psicanalisi per comprendere le ragioni profonde del suo malessere.
L’inettitudine del protagonista, molto simile a quella dell’antieroe sveviano de La coscienza di Zeno, cui Berto ha dichiarato di essersi ispirato, produce paradossalmente situazioni tragicomiche, attimi di straniamento che tuttavia aiutano a comprendere la complessità di una condizione esistenziale tipicamente contemporanea, di un io diviso tra senso del dovere e desideri frustrati».

“Il male oscuro” di Giuseppe Berto nell’adattamento e regia Giuseppe Dipasquale, con Alessio Vassallo, Ninni Bruschetta, Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo, Ginevra Pisani., scene Antonio Fiorentino, costumi Dora Argento, musiche Germano Mazzocchetti, i movimenti coreografici di Rebecca Murgi. Produzione Teatro Biondo Palermo / Marche Teatro / Teatro Stabile di Catania. A Catania, Teatro Verga, dal 14 al 23 febbario, e al Comunale de L’Aquila il 27 e 28.
Giusto, il riscatto di un invisibile
Storia surreale, buffa e dolente di una diversità nel mondo contemporaneo e un invito a superare le certezze che ci proteggono e i limiti che da soli ci siamo dati.
«Ho scritto Giusto – racconta l’autore e interprete Rosario Lisma – con l’intento appassionato di riscattare gli invisibili della nostra società contemporanea sempre più competitiva e arrabbiata. Il mio eroe è come un fiore delicato e luminoso in una discarica comica di individualismo sfrenato. Giusto è un inno alla gentilezza e all’anticonformismo. È il baluardo dell’uomo buono in un mondo spietato».
Giusto è un siciliano trasferitosi per lavoro. I suoi colleghi d’ufficio, all’Inps di Milano, gli appaiono come un microcosmo di maschere, di ridicole creature animali, in cui lui, si sente straniero e solo. Dopo il lavoro si ritira in un appartamento che abita in condivisione con una che non c’è mai e con Salvatore, un calabrone enorme che passa il tempo dipingendo finestre sulle pareti, per poi provare a passarci attraverso. Giusto ha un solo grande impossibile sogno: baciare Sofia Gigliola, detta la Balena, la figlia bella e grassa del suo potentissimo capo. Ci riuscirà?

“Giusto”, di e con Rosario Lisma, illustrazioni Gregorio Giannotta, costumi Daniela De Blasio, luci Matteo Selis. Produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse. A Macerata, Teatro Lauro Rossi, 20 e 21 febbraio.
Il colonialismo italiano ieri e oggi
Parla del colonialismo italiano lo spettacolo Acqua di colonia, testo, regia, interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano (al TeatroBasilica di Roma, dal 19 al 23 febbraio). Una storia rimossa e negata, che dura 60 anni, inizia già nell’Ottocento, ma che nell’immaginario comune si riduce ai cinque anni dell’Impero Fascista. Cose sporche sotto il tappetino, tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente? Eppure ci è rimasta addosso come carta moschicida, in frasi fatte, luoghi comuni, nel nostro stesso sguardo.
Vista dall’Italia, l’Africa è tutta uguale, astratta e misteriosa come la immaginavano nell’Ottocento; Somalia, Libia, Eritrea, Etiopia sono nomi, non paesi reali, e comunque “noi” con “loro” non c’entriamo niente; gli africani stessi sono tutti uguali. E i profughi, i migranti che oggi ci troviamo intorno, sull’autobus, per strada, anche loro sono astratti, immagini, corpi, identità la cui esistenza è irreale: non riusciamo a giustificarli nel nostro presente. Come un vecchio incubo che ritorna, incomprensibile, che ci piomba addosso come un macigno.

Dear son, una danza sulla fragilità della vita
Una riflessione danzata sulla fragilità della vita e sulla forza dell’amore, anche nei momenti più bui della storia. Questo è Dear Son, ultimo spettacolo dei danzatori e coreografi Simone Repele e Sasha Riva (il 23 febbraio al Teatro Petrarca di Arezzo). Coniugando un approccio teatrale e vocabolario neoclassico a un linguaggio e un’estetica fortemente contemporanea, il duo porta sul palcoscenico una storia di speranza in grado di trascendere le barriere del tempo e dello spazio, il ritratto di una famiglia scossa dalla perdita di un figlio partito per la guerra. I progetti del passato, le aspirazioni verso l’ipotetico futuro si cementificano in un presente immobile e doloroso. In una società segnata dalla persistenza dei conflitti e delle loro conseguenze, Dear Son vuol creare uno spazio in cui l’amore e la memoria superano la morte.
