05 ottobre 2020

Notti barbare alla 34° edizione di MilanOltre. Intervista a Hervé Koubi

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Intervista a Hervé Koubi, coreografo francese di origine algerina, protagonista della 34esima edizione di MilanOltre con Les nuits barbares ou les premiers matins du monde

Il Festival di danza MilanOltre, giunto alla 34° edizione, avrebbe dovuto far confluire a Milano produzioni dal Bacino del Mediterraneo alla Via della Seta. Questo il sottotitolo di un programma che a causa della pandemia, e quindi delle difficoltà organizzative, produttive e di spostamento delle compagnie, è stato esteso al 2021. Il direttore artistico del festival Rino Achille De Pace ha deciso di concentrare l’energia e le risorse verso compagnie italiane. Ma è riuscito a portare la produzione internazionale Les nuits barbares ou les premiers matins du monde di Hervé Koubi. Uno spettacolo che ha visto la presenza di danzatori — provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo e originariamente danzatori di strada — dalla forza dirompente, impegnati più che in una danza in una lotta acrobatica, passando da movenze tribali a esercizi quasi circensi, da passi che sembrano provenire dalla Capoeira a pose quasi egizie, dalla tradizione dei Dervisci rotanti ma a testa in giù fino alla parata militare e a virtuosismi da giocolieri. Il tutto in una combinazione di culture e sfumature cromatiche dei corpi dei danzatori che si fanno scenografia.

Al centro dell’interesse del coreografo francese di origini africane c’è la condizione dello straniero, dell’emarginato, dell’altro. In una parola: il barbaro. “Chi erano — scrive Koubi — questi Barbari che irrompevano da nord, le persone misteriose del mare descritte nella Bibbia, nelle cronache e negli antichi monumenti? Chi erano questi Barbari da est, i geni dell’età oscura, questi Persiani e Babilonesi, gli Arabi musulmani? Da quale storia sconosciuta, dimenticata, rielaborata, assimilata o cancellata li abbiamo mai ereditati?” Mentre vedevo lo spettacolo ho pensato al testo straordinario del drammaturgo e regista Bernard-Marie Koltès della fine degli anni ’70,  dal titolo La notte poco prima della foresta, dove lo straniero (il barbaro) è il diverso, è una specie di reietto, abbandonato a se stesso, l’emarginato, l’ultimo, con scarse possibilità di riscatto e integrazione. Qui i ballerini sono barbari contemporanei che lottano, uniti, contro nemici comuni: l’indifferenza, l’ingiustizia e l’emarginazione.

L’intervista a Hervé Koubi

Sei nato in Francia e hai scoperto di essere arabo e di avere origini africane molto tardi. Tua madre è musulmana, tuo padre ebreo. Hai detto che scoprirlo è stato uno shock. C’è un prima e un dopo nella tua vita?

«Sarei tentato di dirti sì e no. In effetti è stato un momento di transizione nella mia vita. Ho terminato gli studi universitari che non avevano nulla a che fare con la danza ed ecco che scopro da mio padre le mie origini. Mi sono buttato completamente nella danza nel mio ruolo di coreografo, dirigendo la mia compagnia. L’annuncio di mio padre risale al 1999 e sono andato in Algeria solo dieci anni dopo. Durante i primi dieci anni della mia compagnia, senza averne piena consapevolezza, ho creato diversi spettacoli che interrogavano la memoria, le tracce, l’affiliazione e a volte il tema della vanità con la V maiuscola. Credo quindi che fosse legato a quell’annuncio il fatto di voler conoscere meglio quali fossero le mie origini e da dove provenissi. Poi ho deciso di voler aspettare i miei genitori perché avrei preferito che fossero loro ad accompagnarmi. Ma non hanno mai espresso il desiderio di tornare, forse per la paura di far riemergere ricordi troppo dolorosi. Ho così deciso di andare da solo. Nessuno mi ha mandato in Algeria, nessuno mi ha invitato. Sono partito con un piccolo zaino e l’unica cosa di cui fossi certo era che volevo incontrare dei danzatori ed è così che l’avventura tra la Francia e l’Algeria è cominciata nel mio percorso di coreografo.»

Usi le maschere. La maschera ha origini antichissime e abbraccia tante culture. Di recente però in occidente (vedi Joker o la serie spagnola La casa di carta), diventa un mezzo di protesta, di ribellione alle ingiustizie e disuguaglianze. Le tue maschere sono luccicanti, riflettenti, lievemente glamour, però hanno lame/corna all’apparenza taglienti. Usi anche bastoni/scettri scarni, trasformando i ballerini quasi in giocolieri. Sono armi di difesa? 

«Ho creato lo spettacolo nel 2015 ed in effetti ero piuttosto lontano dall’attualità a cui fai riferimento come il film Joker o la celebre serie spagnola La casa de papel. La maschera permette di coprire il volto. Ho voluto semplicemente far risuonare quel fantasma del barbaro disumano, senza volto, che usa la violenza gratuitamente. Da un punto di vista antico, romano, il barbaro, l’altro, lo straniero, era qualcuno che faceva paura.

Se si guarda un po’ più da vicino la Storia, si vede come queste civiltà cosiddette barbare, anche con le tracce che hanno lasciato, avessero un gusto per i monili d’oro, per i gioielli e io mi sono in un certo senso divertito a evocare tutto questo attraverso l’impiego delle lame luccicanti portate a mo’ di corna, rievocazione che tuttavia attiene più all’immaginario collettivo del XIX secolo che alla Storia, in quanto nella realtà nemmeno i Vichinghi hanno mai portato le corna. Ma volevo trasformare questi barbari, rievocati dalla storia antica, in qualcosa di inumano, di mostruoso, di inquietante e al tempo stesso però ammiccare al fatto che, in fondo, la loro fosse una ferocia fatta d’oro e di gioielli.

E specificamente riguardo alle lame, esse sono contemporaneamente armi ed elementi di difesa. Sono una sorta di trasposizione dell’idea che si può avere del credere, della fede, del sacro. Di qualcosa che può essere protezione e arma allo stesso modo.»

Alcune composizioni, sul palcoscenico spoglio, sono sorprendenti. Sono tableaux vivants che a tratti mi hanno ricordato opere celebri. Penso a La Zattera della Medusa di Théodore Géricault o alla Deposizione del manierista Rosso Fiorentino. Sul finire dello spettacolo metti in scena una sorta di collettiva Pietà contemporanea. Ogni ballerino solleva un compagno in pose che sembrano scolpite nel marmo o immortalate in un gioco di luci e ombre caravaggesche. Sei influenzato dalla storia dell’arte?

«Anche se sono perfettamente consapevole che il mio lavoro spesso faccia eco a dipinti e pittori, soprattutto del XIX secolo e a volte un po’ più antichi, è il modo in cui desidero illuminare i miei spettacoli. Non utilizzo mai una luce frontale, ma un’illuminazione indiretta. Da lì i giochi d’ombra. Amo l’idea dei giochi d’ombra. Penso che ciò abbia a che fare con la mia profonda appartenenza al mondo mediterraneo. C’è una forma di pudore. La frontalità è utilizzata soltanto in due riprese, all’inizio, nel momento della “rasatura” delle corna, in cui interpello il pubblico — spero in modo inquietante — sull’attualità scottante, su quelli che sono i barbari contemporanei in opposizione a quelli della storia, e in un faccia a faccia  verso la fine sul Requiem di Fauré.

Ma a parte questi due momenti, nel mio lavoro non c’è mai frontalità.  Per cui, di conseguenza, nello spettacolo c’è effettivamente questo punto di vista fatto di chiaroscuri, di giochi d’ombra che  hai definito “caravaggeschi”, idea che amo molto anche se, confesso, non avevo in mente questo riferimento all’inizio.»

Questo spettacolo segna un altro momento di transizione. 

«Sì, dopo dieci anni di focus sulla ricerca dell’identità — e insisto su questo punto della ‘ricerca’ e non della rivendicazione identitaria, che non è assolutamente il mio punto di vista  — sento il bisogno, la necessità di abbandonare quest’indagine, che dal punto di vista culturale e geografico si colloca nell’area mediterranea, di trascenderla, in qualche modo di poterla sublimare e passare a un’altra tappa. Dopo aver messo in discussione, con la questione dell’identità, le frontiere geografiche, ma soprattutto quelle culturali e religiose, sento che è venuto il momento di trascendere la questione dell’identità, del superamento di “sé”, attraverso una danza che unisce, attraverso un danzare ancora di più “insieme”. Le creazioni sulle quali sto lavorando, in particolare Sol Invictus, sono già portatrici di questo superamento, di questo concetto del dissolvimento dell’identità nella danza d’insieme.»

Il festival MilanOltre è in corso al Teatro Elfo Puccini e in altri luoghi di Milano fino all’11 ottobre. Oltre agli spettacoli sono previsti incontri, conferenze online, presentazioni di libri e lezioni. Il programma completo su www.milanoltre.org  Informazioni e prenotazioni: Tel. 02 00660606 biglietteria@elfo.org

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