23 ottobre 2019

Bucarest internazionale, con il festival Enescu

di

Se l'arte contemporanea a Bucarest non coglie nel segno, la musica dona un ritorno d’immagine alla città, che appare qui più europea di quanto non sia realmente

George Enescu Festival di Bucarest
George Enescu Festival di Bucarest

Fra il 19 e il 21 settembre scorsi ho provato a fare una follia: seguire (quasi) tutti gli eventi in programma al George Enescu Festival di Bucarest in quella porzione di tempo. Tre giorni di concerti sinfonici, da camera, mise en espace di opere, prendendomi il lusso di assistere a una recita della più importante creazione destinata alle scene dello stesso Enescu, l’Oedipe, “fuori programma” del festival, inserito nella stagione del Teatro dell’Opera; e di visitare sempre a Bucarest la Casa-Museo dedicata al più importante musicista rumeno, violinista e compositore formatosi a Vienna e Parigi, e che francese è diventato senza mai tradire le radici balcaniche, con ciò creando una musica di segno spiccatamente folkorico, tuttavia immersa in un contesto espressivo tardo-romantico occidentale che fa di Enescu un autore essenzialmente eclettico. Non son riuscito a seguir tutto, anche perché per farlo bisognava avere il dono dell’ubiquità, o almeno un’auto con conducente sempre a disposizione, e una stoica vocazione al digiuno: e qui, almeno per me, casca l’asino… La kermesse dipana il suo cartellone per oltre venti giorni, quest’anno da fine agosto al 22 settembre. Un programma ricco, con orchestre e solisti in tournée, che si forse si potevano ascoltare anche altrove, ma che qui vengono radunati in una sequenza di prestazioni offerte giornalmente, e sulle quali c’è solo l’imbarazzo della scelta. Raccontiamo dunque questa singolare full immersion, incominciando da un matinée di lusso, alle 16:30 del 19. Nella cornice dell’Atheneum romanum (elegante nei suoi fregi dorati, acustica eccellente come accade con gli spazi a pianta circolare) l’oratorio Jean d’Arc au bûcher, attesissima guest star l’attrice francese Marion Cotilliard, la quale, nel ruolo del titolo, recita il testo di Paul Claudel, cui Arthur Honegger ha dato corpo musicale, agendo su un ampio registro espressivo, anche se nelle punte di maggiore drammaticità un’amplificazione inadeguata ne ha spesso alterato timbro ed equilibri di volume con l’ottimo cast che viceversa cantava senza microfoni. L’originale versione coreutica si fa qui semiscenica, scelta forse forzata ma assai vivace, nella quale le voci si muovono in uno spazio risicato, di fronte a un palcoscenico pieno come un uovo, e persino i membri dell’Orchestre National de Lille diretta da Alexander Bloch intervenivano come diseur.

Tutt’altra musica alle 19:30 del 20. Al Palazzo dei congressi (Sala Palatului in rumeno), il capolavoro incompiuto di Arnold Schoenberg Moses und Aron, in forma di concerto. Qui l’acustica non è amica, specie quando la partitura come in questo caso poco concede alla godibilità d’ascolto, ma molto offre a un progetto drammaturgico che, partendo dalla storia biblica, ha l’ambizione di scavare al fondo della natura umana e del suo rapporto con il trascendente. In questo senso, sia pur ben realizzate, pleonastiche son parse le proiezioni multimediali che, irradiandosi dal palcoscenico, abbracciavano l’enorme sala. Partitura complessa, nel canto – personaggi e coro – come nella scrittura, che l’esperto Lothar Zagrosek dal podio di Filarmonica e Coro Enescu ha governato con riconosciuta sapienza.

Di nuovo all’Atheneum, il 21 sempre in pomeridiana con la pianista nipponica Mitsuko Uchida, accompagnata dalla Mahler Chamber Orchestra. Il suo Mozart (concerti K 459 e 466 eseguiti e diretti con gran raffinatezza) incastonava le Metamorphones per 23 archi solisti di un Richard Strauss vecchio e sconfitto per le scelte di vita, ma non nella composizione, e ancora capace di creare un capolavoro che senza direttore i membri della Chamber hanno regalato con memorabile intensità.

La musica, sempre all’Atheneum, risuonava spesso anche dalle 22:30 a notte fonda. Ed era spesso musica antica, come le due opere di Haendel – Giulio Cesare in Egitto e Agrippina – offerti dal gruppo Les Talent lyriques guidato dal cembalo con autorevolezza e stile da Christophe Rousset. Proprio nel nome di Haendel e di Vivaldi l’Italia con i suoi ensemble figurava nel cartellone del Festival: Europa galante, Accademia bizantina, LaBarocca. E il Prete Rosso riaffiorava nella marmellata postmodern del gettonato Reimagining Vivaldi di Max Richter. Marco Angius, che abitualmente frequenta ben altro repertorio, si è spinto fino a Bucarest per dirigere un pezzo utile solo a rendere apprezzabili le indubbie qualità del violino solista, qui di Anna Tifu, già vincitrice di un passato concorso Enescu. Nel 2018 vincitore era stato Ybai Chen, solista de Il canto dei neutrini presentato nella seconda parte del concerto, alla Sala della Radio insieme alla Fellini Suite: entrambi piacevoli lavori di Nicola Piovani, sul podio, festeggiato dal pubblico e dall’eccellente Filarmonica di Timisoara. Sempre parlando di violinisti, formidabile per ricchezza di suono e chiarezza di lettura il Vadim Repin del Primo concerto di Sostakovich ascoltato con la Filarmonica di San Pietroburgo, diretta da Christian Badea dopo il poema Isis di Enescu, che mi ha preparato all’ascolto del citato Oedipe.

Questo è quanto ho potuto seguire, ma nel tempo della mia presenza si tenevano altri concerti, senza dire di incontri e attività didattica. Un festival per tutti i palati e con tale qualità di scelte artistiche non può vivere senza importanti contributi pubblici e privati, e proseguendo una tradizione pluridecennale non può non avere un giusto ritorno d’immagine per Bucarest e per la Romania, che appare qui più europea di quanto non sia realmente.

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