17 febbraio 2024

Canone, rivoluzione e controrivoluzione della canzone italiana

di

Cambiare gli accordi per non cambiare musica oppure colpo di mano dei nuovi barbari della strofa? Storia recente della canzone italiana, al ritmo dei Festival di Sanremo

Eros Ramazzotti vincitore della sezione Nuove Proposte al Festival di Sanremo 1984

Anni fa seguivo un bellissimo corso di scrittura creativa a Roma. Uno dei relatori era il giornalista dell’Espresso Roberto Cotroneo, saggista, scrittore, conduttore. Durante una delle sue lezioni pastiche tra letteratura, musica, arte, ci rivelò un gossip succoso. Durante l’edizione di Sanremo 2000, insieme ai suoi colleghi della Giuria di qualità, provarono a far vincere gli Avion Travel, dando voti bassi a tutti gli altri artisti. «Volevamo che vincesse una canzone di qualità». E questo in una edizione che comprendeva Gianni Morandi, Subsonica, Max Gazzè, Irene Grandi, Samuele Bersani, Matia Bazar, Carmen Consoli.

Un golpe? Forse sì, forse no. Anche perché il componimento della Piccola Orchestra Avion Travel di Caserta, Sentimento, era veramente un piccolo capolavoro. A metà tra il folk e un soundtrack mediterraneo, gli Avion ci mostrarono un modo nuovo e antico di fare musica. Fu una ventata d’aria fresca, dopo 20 anni di Sanremo ingessato, seppur rivitalizzato, dalla visione del Tayllerand della tv nazionale, Pippo Baudo. E infatti, nonostante le rivelazioni uscite anni dopo su Dagospia, nessuno ebbe da ridire. La bellezza, l’eleganza della canzone e il palmares della band – già un premio della critica a Sanremo 1998 con Dormi e Sogna – addormentarono ogni polemica.

Il 18 brumaio della canzone italiana

Non si può dire lo stesso per quello che è successo a Sanremo 2024. Tante polemiche sull’esito della kermesse guidata per il quinto anno consecutivo da Amadeus. Una sorta di ribaltone della Sala Stampa e della Giuria delle radio (rappresentanti della carta stampata, televisioni, web e delle emittenti radiofoniche) che avrebbe vanificato il voto della gente con percentuali bulgare: 70% per la canzone vincitrice, La noia di Angelina Mango, e uno striminzito 1,5% per il secondo classificato Geolier con I p’ me, tu p’ te, con percentuali simili ma invertite per il televoto. Complotto? Golpe? Colpo di mano? Qualcuno ha fatto notare che i giornalisti in genere ascoltano le canzoni un mese prima e già erano compatti su chi votare ben prima dell’inizio del Festival. Ma la sostanza non cambia. C’è stato un gruppo di addetti del settore radiotelevisivo e della carta stampata che ha indirizzato l’esito della competizione in modo evidente. In realtà più che un colpo di mano assomiglia a una controrivoluzione, a un 18 brumaio della canzone italiana.

Non è mancato qualche scivolone della categoria, novelli parrucconi, professoroni, muniti di laptop e tesserino dell’Odg: «Non fate votare la Campania!», «Non ti senti a disagio per aver rubato la vittoria?». E così via. Domanda impertinente di una giornalista, riferita alla serata dei duetti in cui Strade di Geolier, con il rapper Luchè e un redivivo Gigi d’Alessio, aveva battuto un’emozionante La rondine, brano del padre Pino Mango cantata dalla figlia Angelina. Insomma, un polverone, che non ha fatto altro che alzare lo share e l’hype del Festival, già abbondantemente attestato oltre i record dei dati auditel.

L’incontro segreto tra Napoli e il Festival

«La città che ha votato più Geolier è stata Milano, non Napoli. E non è vero che sono tutti napoletani emigrati. Il napoletano è una lingua che accoglie, è universale. Se vuoi essere napoletano già lo sei». Un Roberto Saviano mai banale. Siamo alle solite? È l’ennesimo scontro? Napoli contro tutti, Sanremo contro il popolo, Napoli contro Sanremo o cosa? Masanielli contro nobiltà di penna? In realtà le cose sono più complicate.

Già nell’edizione del 2000 c’era stata un’altra canzone, l’unica insieme a Sentimento capace di rimanere in questi 20 anni nella memoria del pubblico. Meno bella sicuramente ma, forse, anche più famosa, più citata, più cantata. Possibile? Sì, perché era Non dirgli mai di un asciutto Gigi d’Alessio, esordiente e spumeggiante nelle sue performance live al pianoforte sul palco dell’Ariston. Il testo era un po’ strampalato, ricordato più per meme e battute che per le emozioni e le melodie suscitate dagli accordi. Non era in “lingua” ma il napoletano traspariva in ogni vocale, in ogni consonante, nel vibrato della voce, nelle immagini e nelle atmosfere narrate dal cantautore di Fuorigrotta. Un trionfo commerciale e una consacrazione per il Gigi finalmente nazionalpopolare, che da tempo ambiva a salire su quel palco, nel salotto buono della musica italiana.

Ma è stata solo l’ennesima storia, l’ennesimo incontro quasi segreto tra Napoli e il Festival. D’altronde anche la Mango, prima di Sanremo, ha sfondato con Che t’o dico a fà, testo in italo-napoletano. E se la vulgata vuole che, a partire dagli anni ’50, il Festival di Sanremo, dal teatro Ariston e grazie alle trasmissioni Rai, inventa tout court la canzone italiana, per qualcuno essa nasce addirittura come “eresia” della canzone napoletana melodica, in voga fin da metà ‘800 e diffusasi grazie al Festival della Canzone napoletana, kermesse viva fino agli anni ‘70 al Teatro Mediterraneo della Mostra d’Oltremare. Dunque, un amore complicato, fatto di colpi di scena, di incontri e abbandoni.

Il canone sanremese

Ma poi la canzone italiana è diventata adulta con i suoi grandi successi e la sua storia internazionale. Nel blu dipinto di blu, Cuore Matto, Lacrima sul viso, Non ho l’età, Le mille bolle blu, Un’emozione da poco, Un’avventura, solo per citare alcuni successi del Festival. E Sanremo nei decenni è diventato istituzione, potere artistico, codice. Canone. Inattaccabile? Tutt’altro. È la prima occupazione di molti italiani nella prima settimana di febbraio: parlarne male, criticarlo, sbeffeggiarlo anche ma senza perdersi una sola serata.

Ma qual è il canone sanremese? Ovviamente è mutato nel corso dei decenni. Nilla Pizzi e Iva Zanicchi non hanno nulla di Anna Oxa o di Malika Ayane. Eppure, soprattutto dagli anni ‘80 e da Pippo Baudo in particolare, il canone sembra essersi definito, rinforzato, auto-propagato. Non sono canzoni per forza vincenti. Anzi. Il canone di regola esclude la vittoria perché impone la continuità, mentre la vittoria esprime per forza di cose una rottura.

Le canzoni che abbracciano questo canone hanno dunque tratti comuni. Sono dolcemente romantiche, malinconiche ma mai disperate. Per dire, non hanno niente della potenza sonora e esistenziale de Gli uomini non cambiano o Almeno tu nell’universo di Mia Martini (che infatti non è canone, troppo al di là); di un Ancora di Eduardo De Crescenzo o di Perdere l’Amore di Massimo Ranieri come di un disperante Ciao amore, ciao di Luigi Tenco. Sono melodiche ma mai troppo brillanti, eccitanti come Gianna di Rino Gaetano, Non voglio mica la Luna di Fiordaliso, Re di Loredana Bertè, Salirò di Daniele Silvestri o 7000 caffè di Alex Britti.

Non sono mai generazionali, non potrebbero esserlo. Significherebbe legarsi a un’epoca precisa (L’italiano, Cosa resterà di questi anni ‘80, L’uomo con il megafono, Una vita in vacanza, Me ne Frego). Esprimono un’essenza che aspira a superare il tempo, il momento, l’accordo. «Questa è sanremese!». Quante volte l’abbiamo sentito dire nei salotti di casa? «Troppo sanremese, non mi piace». Una breve lista (da emendare e integrare):

Adesso tu – Eros Ramazzotti (1986)
Vattene amore – Amedeo Minghi e Mietta (1990)
Ti lascerò – Anna Oxa, Fausto Leali  (1989)
Nostalgia canaglia – Albano e Romina (1986)
La Solitudine – Laura Pausini (1993)
Se m’innamoro – Ricchi e Poveri (1985)
Quando nasce un amore – Anna Oxa (1988)
Non amarmi – Francesca Alotta – Aleandro Baldi (1992)
La forza della vita – Paolo Vallesi (1992)
Un amore cosi grande – Claudio Villa (1984)
Un amore grande – Pupo (1984)
Come saprei – Giorgia (1995)
L’essenziale – Marco Mengoni (2013)
Tango – Tananai (2023)
Non so più a chi credere – Biagio Antonacci (1995)

Si potrebbe continuare all’infinito. Eppure il canone è sempre minacciato. È tale proprio perché ogni volta vogliono buttarlo giù. E chi lo minaccia o peggio lo ignora? I Barbari. I barbari della strofa. Totalmente indifferenti alla tradizione della canzone italiana. E quando sono arrivati? Anni fa, in ordine sparso. Geniali e irrispettosi non solo per la musica ma anche per il teatro dell’Ariston, addobbato con eleganti anemoni, papaveri, garofani e soprattutto tantissime rose. D’altronde sono (quasi sempre) artisti di livello, abituati a pensare in modo indipendente, divergente e creativo.

Qui bravi ragazzi terribili

Il primo che ci ha provato in gran stile è stato Vasco con Vita Spericolata (1983), poi i Righeira con Innamoratissimo (1986), Jovanotti con Vasco (1989) e poi la Mtv generation: Bluvertigo (L’Assenzio, 2001) e i Subsonica. Elio e le Storie Tese con La Terra dei Cachi del 1996 rischiò (paurosamente) di vincere e di rompere il delicatissimo giocattolo. Erano artisti legati ad altri mercati, altro pubblico e che sfruttavano la kermesse sanremese per rompere un po’ le scatole all’abbottonatissimo ambiente della canzone italiana, per amplificare il segnale, soprattutto per vendere più dischi.

Poi c’è stata una seconda ondata. La volta dei Maria de Filippi boyz. Ragazzi preparatissimi e un po’ incolori dei talent di Mediaset, con truppe cammellate di televotanti al seguito e canzoni dimenticabilissime (Marco Carta con La forza mia, 2009, e Valerio Scanu con Per tutte le volte del 2010) ma vittoriose. Lì si toccò con mano il rischio di affidare alla gente munita di cellulare la scelta del vincitore di una kermesse che fa muovere milioni e milioni di euro in poche serate.

Infine – è cronaca di questi anni – l’ultima infornata di ragazzi “terribili”, prodotto delle nuove tendenze musicali ma soprattutto dei nuovi stili di vita, delle nuove idee e visioni delle new communities: Achille Lauro, il Bowie della Serpentara, con il suo stile glam-rock-punk baroque. Altri personaggi come Rosa Chemical, la Madame, Big Mama, Ghali, Ariete, Dargen D’amico, Blanco e l’elegantissimo e premiatissimo Mahamood, l’unico in grado di miscelare un certo melodismo con le nuove tendenze pop, hip hop, trap fino all’R’n’B. Ma nessuno di loro si è mai sognato di mettere in discussione l’equilibrio, la memoria, il canone. Anzi. Era e rimane un bersaglio perfetto da colpire e da criticare. Per definirsi diversi, per mostrarsi come alternativa al grigiore dell’ortodossia sanremese.

Una varietà da proteggere. Costi quel che costi

Se dal 1997 era stata introdotta la Giuria di qualità, composta da personalità della cultura e dello spettacolo, dopo la vittoria di Mahmood con Soldi su Ultimo (affossato proprio dalla Giuria della Stampa, tv, radio e web) nel 2019, il vicepremier del consiglio in carica Luigi di Maio, in linea con i valori del Movimento 5 Stelle, aveva chiesto l’eliminazione di ogni giuria, di ogni intermediazione a favore del televoto popolare. Amadeus coglie la palla al balzo e nell’edizione successiva lascia tutto nelle mani della giuria popolare. Bisognava assecondare il momento. Ma poi ci si è resi conto, ancora una volta, come un pendolo, che la mediazione era necessaria. La mediazione è necessaria. Il canone va salvaguardato. È il faro, l’elemento di riconoscibilità, oscuro e visibilissimo, che permette di tirare una linea tra Grazie dei fiori di Nilla Pizzi e Brividi di Mahmood/Blanco.

Ora la domanda attuale è: la canzone della Mango, La Noia rispetta il canone? No, per nulla. Ha ritmi raggaeton e latini, spuria e barbarica come le altre due finaliste, Sinceramente di Annalisa (sulla falsariga della rinata italo-disco) e I pe’ me, tu pe’ te di Geolier, manifesto delle nuove urban tribes “napolenazionali” (Saviano dixit).

E infatti, a nostro modestissimo parere, è stata l’interpretazione della canzone La rondine, del padre Mango, personalità e voce smisurata, a rimettere le cose a posto. A ricollegarsi con quel torrente melodico e romantico tipico del Festival. A salvare per l’ennesima volta il Festival dai barbari ormai dentro la città, sempre più forti ma rimandati anche questa volta all’anno prossimo.

Cosa sarebbe successo se avesse vinto Geolier? Caroselli, Napoli campione, “simme ‘e cchiù forte!”. La Napoli e il Cantanapoli sarebbero risuonati nuovamente su tutti i media del belpaese. Un ritorno al passato? Forse sì, forse no. Avrebbe spezzato l’incantesimo di Sanremo? Forse. O forse ne sarebbe creato un altro. Dobbiamo aspettare il 2025 ormai.

Ma comunque le “orde” di napoletani (da un noto meme) devono aspettare ancora. Come per lo scudetto. D’altronde quale manifestazione canora, nonostante un canone così definibile, riesce a tenere nella stessa serata cantanti come Diodato e La Sad, Big Mama e i Ricchi e Poveri, Irama e Fiorella Mannoia? Una ricchezza da proteggere, assolutamente.

Per ora il canone rimane intatto, torna sotto la teca di cristallo per un altro anno, protetto da schiere di alfieri giornalisti che hanno fatto solo il loro dovere e che, finalmente, dopo una settimana infernale potranno tornare ai loro dolci weekend a Cortina o a Vernazza. Lì, per fortuna, le canzoni di Sanremo non arrivano.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui