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Alchimie e visioni: Fabrizio Cotognini racconta il suo universo mistico
Arte contemporanea
Lungo tre dei piani della galleria si attraversano epoche, materiali e immaginari diversi, come in un viaggio fuori dal tempo. Anatomie rinascimentali, scenografie teatrali, scritture arcane e animali fantastici si susseguono in un flusso visivo denso e stratificato. È in questo contesto che prende forma Transitum, la prima mostra personale di Fabrizio Cotognini (Macerata, 1983) negli spazi milanesi di BUILDING GALLERY, curata da Marina Dacci. Un progetto ambizioso, che raccoglie oltre novanta opere realizzate appositamente per l’occasione, e che si snoda come un racconto in continua metamorfosi. Tra le tematiche affrontate ci sono quelle dell’identità, del rapporto con il tempo, del mistero dell’occulto e della fascinazione per il magico.

Il lavoro di Cotognini si fonda su un principio di frattura, di scarto: ogni opera genera un cortocircuito visivo e concettuale in cui si intrecciano epoche storiche, materiali eterogenei e iconografie differenti. L’artista agisce come un alchimista, mescolando incisioni settecentesche, disegni, microfusioni in bronzo, sculture 3D e installazioni, trasformandoli in oggetti di senso nuovi e inattesi.
Il risultato è un universo complesso e multiforme, in cui ogni opera si presenta come un microcosmo autonomo, ricchissimo di dettagli e suggestioni. Lo sguardo dello spettatore è messo costantemente in movimento, costretto a oscillare tra frammenti visivi e simbolici, dentro un racconto che si costruisce per sovrapposizione. Abbiamo incontrato l’artista per farci raccontare il suo lavoro e la genesi del progetto.

Com’è nata l’idea di Transitum?
«Il progetto è nato circa due anni e mezzo fa, da un lavoro di sinergia a tre, tra me, Marina Dacci – che ha curato la mostra – e BUILDING. Senza questa connessione virtuosa il progetto non avrebbe avuto lo stesso respiro. La mostra si sviluppa in tre dei piani espositivi di BUILDING in via Monte di Pietà 23 e si estende, inoltre, in via Brera 3 a Milano, negli spazi di Galleria Moshe Tabibnia. L’idea era quella di proporre una ricognizione del mio lavoro degli ultimi quindici anni».

Come hai gestito un corpus così ampio di opere? Da dove sei partito?
«Ho iniziato con i lavori sulle incisioni, che sono quelli che porto avanti da più tempo. Poi sono nati i disegni su carta nera – come il Salterio e i libri d’artista – che riflettono la parte più intima e riflessiva della mia ricerca. Successivamente è arrivato l’immaginario del teatro, tema a cui lavoro da molto tempo e ho presentato alla mia personale alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Qui, ho messo in scena il Parsifal. La parte scultorea, invece, è quella più sperimentale e inedita: è la prima volta che affronto in modo così diretto la tridimensionalità».

Il disegno resta comunque il centro del tuo lavoro?
«Assolutamente sì. Il disegno è sempre il punto di partenza, anche per le opere scultoree e installative: sono come delle estroflessioni del segno. Non mi sono mai sentito uno scultore».
Nei tuoi lavori emergono riferimenti forti a diversi ambiti di studio. Quali sono le tue principali fonti culturali?
«I miei riferimenti nascono dalla mia formazione: da un lato l’iconografia tradizionale – Crivelli, Lotto, Raffaello – dall’altro la mia laurea in antropologia, che mi ha portato a studiare temi come la nascita del mostro, lo specchio, le macchine magiche, le Wunderkammer. Colleziono incisioni antiche, alcune delle quali sono diventate parte delle mie opere. E poi c’è il mio passato di orafo: elemento centrale nelle mie opere».

Che rapporto hai con il tempo?
«Per me il tempo non è mai lineare o cronologico: è una dimensione mistica. Lavoro per suggestioni temporali. Posso partire da un’incisione del Seicento, ad esempio una Mappa Celeste, e costruire attorno un universo visivo in cui le immagini si fondono, si accostano, si riscrivono. Nulla viene sottratto, nulla viene profanato: il vero e il falso si intrecciano senza soluzione di continuità».

Il titolo Transitum sembra evocare proprio questo attraversamento. Cosa significa per te “transito”?
«Transito è, prima di tutto, il passaggio della materia: la cera che diventa bronzo, la biacca che si fa disegno e poi si trasforma in oro. Ma è anche un passaggio personale. Transitum racconta il mio attraversamento, questi due anni e mezzo in cui ho rimesso in discussione il mio lavoro, aprendo a una nuova fase, a nuove possibilità espressive».