26 novembre 2020

Giorgio Ermes Celin: storie di corpi nudi che combattono per un posto nella società

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«Nudi siamo anima-li»: per The Underground, la nostra guida all'arte al di là dei circuiti convenzionali, abbiamo intervistato Giorgio Ermes Celin

In un’epoca in cui la nostra immagine pare comunicare più di quanto noi vorremmo, dai corpi svestiti di Giorgio Ermes Celin trapela una sensualità arcana e genuina che ci mostra per quello che siamo scardinando una storia dell’arte fatta di corpi bianchi, atletici e cisgender. Corpi umanizzati che combattano per uno spazio nella nostra società. Nella serie Kanon il corpo dipinto è lo strumento per riflettere, per interrogarsi sulle proprie opinioni politiche e sulla percezione di idee di genere e forma. Nei dipinti dell’artista, solitudine, migrazioni ed epifanie di lande colorate.

Giorgio Ermes Celin
Fantasmi azzurri, 90 x 150 cm, olio su tela, 2020

The Underground: l’intervista a Giorgio Ermes Celin

In questa nuova puntata di The Underground, la nostra rubrica dedicata all’arte al di là dei circuiti tradizionali, abbiamo parlato con Giorgio Ermes Celin di migrazioni, arte e discriminazione dei corpi in pittura.

Nelle tue opere si assapora un certo sentore derivante dalla Secessione Viennese ma anche l’influenza dell’Ukiyo-e e della corrente Superflat. Ti va di parlarcene?

«Ho una passione per il modernismo, per le deformazioni esagerate, per la ricerca di uno stile che sia estremamente personale e considero Egon Schiele il mio maestro indiscusso. In così poco tempo di vita è riuscito a creare uno stile unico di una potenza invidiabile. In realtà c’è una linea che collega queste mie tre passioni: sono cresciuto leggendo manga e guardando gli anime, erano per me un modo di evadere dalle varie difficoltà che ho vissuto durante la mia infanzia e adolescenza.

Ed è grazie al personaggio di un manga (Makio Kirishima in Mars di Fuyumi Souryo) che ho scoperto Schiele: è stato amore a prima vista. Ho cominciato a copiare Schiele studiando la sua poetica e la sua estetica ma il mio amore per la cultura giapponese e per gli Ukiyo-e (stile fiorito nel periodo Edo che ha ispirato maestri del modernismo come Van Gogh e Gauguin) mi hanno in seguito riportato “all’origine del Sole” e alla scoperta del superflat e di artisti come Murakami,Yoshimoto Nara e Aya Takano.

In particolare Aya Takano che ha un’estetica essenzialmente cel-ga, ispirata ai fogli di acetato tipici dell’industria anime degli anni ‘90, è riuscita ad elevare quel tipo di estetica ed esportarla in tutto il mondo ad altissimi livelli, guadagnando il rispetto del mondo dell’arte e aprendo le porte ad artisti come me, che sono stati fortemente influenzati dall’estetica anime-manga. Quest’anno Sotheby ha anche messo all’asta alcuni disegni cel-ga, confermando l’importanza artistica del genere».

Giorgio Ermes Celin
Figura 17, 50 x 70 cm, olio su tela, 2019

C’è un significato dietro la nudità dei tuoi corpi?

«Sì, la nudità di molte mie figure non è casuale. La nostra società e ossessionata dai vestiti, dalle mode, dalle apparenze. Il corpo vestito esiste in relazione al proprio tempo, allo spazio urbano in cui si muove, allo status sociale, al modo in cui consumiamo…la moda rappresenta per il corpo individuale ciò che l’architettura rappresenta per il corpo sociale. Un corpo nudo fugge dal suo tempo, è atemporale, infinito. È molto diverso il modo in cui utilizzo un corpo nudo rispetto ad uno vestito nelle mie opere.

Per esempio, una delle poche cose che ci lega alla natura originaria del nostro essere, in questo folle tempo di continue rivoluzioni tecnologiche in cui viviamo, è il nostro corpo. Quando siamo nudi, siamo vulnerabili, onesti…pensa all’espressione “nudi come vermi”: nudi non possiamo più rifulgere quell’aura di onnipotenza che da sempre abbiamo tentato di emanare, nudi siamo pezzi di carne, torniamo ad essere animali o, volendo rubare un’espressione al prof. Mastropaolo, nudi siamo anima-li (anima inteso in senso junghiano)».

Giorgio Ermes Celin
Singue tu felix, 50 x 75 cm, olio su tela, 2020

In Pájaros del Atlántico emerge la questione di rappresentanza e diversità nel campo dell’arte figurativa e del sentimento interiore di appartenenza. Come nasce questo progetto? C’è discriminazione nella rappresentazione dei corpi in pittura?

«Louise Bourgeois disse: “racconta te stesso e sarai interessante”, quindi Pajaros del Atlantico nasce dall’esigenza di raccontare la mia storia, il mio vissuto, di trasformare esperienze di vita complesse e a volte dolorose in arte. Personalmente ho avvertito tutta la vita un sentimento di non appartenenza, come se fossi nel luogo sbagliato, ed effettivamente lo ero, lo sono: la mia è un’anima spezzata, come quella di tutti i migranti.

La migrazione fa parte del mio DNA: i miei nonni sono stati migranti, i miei genitori, ora io. Dentro di me c’è un senso di malinconia profondo, ancestrale, avvertire la mancanza di luoghi che spesso non si ricordano neanche più. Io esisto come artista a partire da questo luogo immaginario che è il viaggio migratorio: se non appartieni a nessun luogo, puoi appartenere a tutti i luoghi.

Creare, partendo da questa prospettiva, non ha limiti: si possono compiere viaggi ancor più folli di quelli degli uccelli che attraversano ogni anno l’oceano Atlantico.

Dream a little dream of me, 85 x 105 cm, olio su lino, 2020

Per quanto riguarda i corpi, ovviamente esiste discriminazione, la pittura è solo un’espressione della nostra società. Un collezionista di recente mi ha detto che avrebbe preferito vedere figure con tratti più occidentali nelle mie opere e mi ha spiazzato, non sapevo come rispondergli. E, a questo proposito, è interessante anche guardare i dipinti di Botero: siamo entrambi colombiani, ma nel suo mondo pittorico si muovono solo corpi “bianchi”.

Non so se sia la scelta di una mente artistica “colonizzata” o una precisa scelta commerciale ma, in entrambi i casi, dice molto di cosa è o non e considerato accettabile, vendibile, a livello di arte figurativa. Ma le cose stanno cambiando, esiste una pluralità di voci, e, come dicevo prima, più coraggio nel rappresentare le proprie storie piuttosto che ripetere le stesse versione della Esotica dei nuovi mondi a uso e consumo del vecchio.

Sembrerà assurdo, ma io non scelgo i miei soggetti pensando al passato, penso piuttosto a chi guarderà i miei dipinti quando io non esisterò più. Non voglio che altre persone sentano quello spaesamento che ho avvertito io, voglio che si sentano rappresentati, non rifiutati».

Giorgio Ermes Celin
Pajaros de l’Atlantico II, 95 X 195 cm, olio su tela, 2020

Stai lavorando a una serie dipinti sulle dinamiche di coppia e sulle interazioni sentimentali e sessuali nell’era post-smartphone. Puoi parlarci di questo progetto?

«È una serie a cui lavoro da un po’, spero di riuscire ad esporla il prossimo autunno, covid permettendo. Sai, tutti i miei lavori nascono da considerazioni molto personali, questa in particolare. Mi sono ritrovato improvvisamente a vagare da solo per il mondo, rimettendo in piedi i pezzi dopo una rottura sentimentale improvvisa e devastante, accompagnato solo da uno smartphone.

Nelle mie varie avventure mi sono ritrovato a riflettere molto sui rapporti umani, la solitudine, il sesso, sulle applicazioni di incontri…Abbiamo sviluppato applicazioni per facilitare qualsiasi processo: ma ci è ancora impossibile innamorarci attraverso un algoritmo, fare l’amore o mettere in piedi quel processo di simbolizzazione essenziale all’espressione dell’animo umano. Guardando e riguardando i disegni più intimi di Schiele, ho cercato di riprodurre le inquietudini di quegli incontri, ma anche la tenerezza e quella la ricerca straziante di un momento di intimità.

Ho utilizzato i letti disfatti come se fossero palcoscenici dove le figure, come attori, recitano un ruolo che gli ho assegnato con l’onnipresente smartphone come spalla. L’interazione di due o più corpi nudi è un soggetto che Schiele ha esplorato ampiamente per cercare di dare risposta alle inquietudini fin de siècle, io utilizzo l’erotico come metafora essenziale della conflittuale natura dei rapporti tra esseri umani.

Nelle mie opere più che la paura (o forse, nel caso di Schiele, un presagio) della thanatos ancestrale, c’è una brama e allo stesso tempo un timore di contatto, di intimità, la ricerca di un senso di appartenenza, dell’altro, per sentirsi meno soli in un mondo governato dall’individualismo e completamente divorato dall’ego. Alla fine restano dei corpi nudi, soli, anche se giacciono o si uniscono insieme con altri corpi».

Giorgio Ermes Celin
The tears of the desert snake, 85 x 110 cm, olio su tela, 2020

Nell’Ars poetica, Orazio affermò che “la poesia è come la pittura”. Cosa ne pensi di questo assunto? Quanto la poesia è presente nelle tue opere?

«La famosa locuzione “ut pictura poiesis” è ancora più antica di Orazio: il parallelismo tra pittura e poesia era già ben noto nell’Antichità: la pittura era considerata come poesia visiva e la poesia come pittura scritta. Anche il verso della mano che dipinge è simile al gesto di una mano che scrive, in termini warburghiani, come vere e proprie pathosformeln.
La poesia e la pittura si allontanano e si incrociano all’infinito.

Fino a qualche anno fa tenevo un diario, che scrivevo quotidianamente. Da quando ho iniziato a dedicarmi più attivamente alla pittura ho trasferito quella pratica alla creazione di piccoli poemi, che utilizzo come moodboard per i dipinti. The cruel season of Aquarius, per esempio, è nato prima come un insieme di versi liberi che hanno poi dato vita all’immagine dipinta.

Amo della poesia, come della pittura, quell’alone di mistero, quell’apertura all’interpretazione, al sentire singolare. Ci siamo così abituati alle spiegazioni infinite, agli intellettualismi vuoti e che svuotano, da non sapere più prenderci il tempo per sentire, interpretare. Sentire viene da sensus, dirigere verso, non solo il pensiero, ma anche i sensi. Io non voglio mettere una distanza intellettuale tra me e chi guarda la mia opera, voglio che senta se stesso, che diriga il suo sentire e che legga la pittura, decifrandola secondo il proprio dizionario, esattamente come farebbe con dei versi scritti».

Giorgio Ermes Celin è nato a Barranquilla, in Colombia, nel 1986, si è formato però tra Napoli e Barcellona. Ha esposto i suoi lavori al MACRO e a Fondamenta Art Gallery, alla Galerie Benjamin Eck di Monaco, alla Fondazione Michelangelo Pistoletto di Vinceza e alla Galeria El Museo di Bogotà. È stato residente presso Plataforma Canibal nella sua città natale e a El Parche Artist Residency a Bogotà e ha collaborato con il Museo Santander.

«I corpi possiedono una luce propria che consumano per vivere: essi bruciano, non sono illuminati dall’esterno», Egon Schiele (Tulln an der Donau, 12 giugno 1890 – Vienna, 31 ottobre 1918).

The Curel Season of Aquarius, 70 x 100 cm, olio su tela, 2020

Per le altre puntate di The Undergroud, la nostra guida all’esplorazione dell’arte diffusa al di là dei circuiti convenzionali, per scelta o per caso, potete cliccare qui.

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