19 maggio 2022

Il caglio dei sogni che manca a questa Biennale d’Arte di Venezia

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Una Biennale che lavora sull'immaginario ma a cui manca la pratica, una mostra assolutamente da vedere e assolutamente insufficiente: l'opinione di Paolo Naldini

È lo sradicamento a essere illegittimo, non l’appartenenza.

Di questa Biennale curata da Cecilia Alemani non ho trovato radici nel suolo compatto e umido di Castello. Se la Biennale è alla Laguna, la Laguna non è alla Biennale. La situatednees dell’istituzione non si trova. Probabilmente è ingiusto aspettarsi che nella preparazione della mostra in tempi di pandemia si coltivassero rapporti con un territorio che, di fatto, non era quasi accessibile. Ma questa condiziona si traduce, nella gran parte dei lavori presentati, in una rinunciataria mancanza di concretezza rispetto al che fare e al come farlo.

A scanso di equivoci: l’operazione è accurata e intellettualmente affascinante. Le sezioni (capsule) di approfondimento storico sono una risorsa di sapere probabilmente vitale oggi: la “culla della strega” è un viaggio catartico; la “iconologia dei recipienti” offre un efficace esempio di narrazione alternativa rispetto alle idee dominanti, alla base di molti dei problemi che oggi ci attanagliano. Queste istanze, credo, sarebbe opportuno che fossero alla base di ogni operazione culturale contemporanea. Dunque, questa ritrovata normalità ci consegna a una biennale d’arte assolutamente da vedere…e assolutamente insufficiente. Perché nelle biennali di cui abbiamo bisogno, secondo me, c’è altro.

Cosa manca allora in questo latte dei sogni? Il caglio. Il caglio, cioè pratiche di cambiamento concreto della realtà in cui viviamo o in cui vivono gli artisti che tali pratiche esercitano insieme alle persone e alle organizzazioni con cui convivono. C’era da aspettarselo da parte mia, visto che dal 2000 vivo a Cittadellarte, che appunto è una scuola di queste pratiche, con la esplicita missione di contribuire fattivamente a riequilibrare gli squilibri che lacerano il tessuto sociale e il nostro rapporto col mondo.

Critique is not enough.

Basti pensare che già nel 2002 e 2003 con la mostra La nuova agorà: critique is not enough, presentiamo “…ventisette lavori che vanno al di là della pura critica delle istituzioni sociali cercando nuove collaborazioni o nuovi modi di reagire”. Da allora addirittura il Turner Prize premia gli Assemble e nomina i Cooking Sections, la cui pratica appunto si cimenta direttamente nel cambiare le cose. Anche Documenta 14 invita progetti come Row House di Rick Lowe.

Sono almeno trent’anni che l’arte lascia il proprio campo e diventa visibile come parte di qualcos’altro, implicandosi nell’affrontare direttamente le questioni sociali, senza limitarsi al livello simbolico. Senza scomodare Beuys o l’Arte Povera, basti ricordare la New Genre Public Art di Suzanne Lacy e la mostra di Mary Jane Jacob “Art in Action”. Oltre ai numerosissimi progetti artistici che si sono sviluppati a tutte le latitudini (dall’Arte Util di Tania Bruguera o all’esperienza di Creative Time), dispositivi come Les Nouveaux commanditaires addirittura anticipano evoluzioni del diritto come i Patti di Collaborazione.
Invece, la stessa Cecilia Alemani spiega che “L’arte lavora nel dominio del metaforico e del simbolico e ha la forza di mostrarci il mondo in cui viviamo con occhi e lenti diverse”.

La pornomiseria della modernità.

Negli anni ‘70 in Colombia si sviluppa un decennio di attività documentaristiche di denuncia sociale, si è parlato a proposito di alcuni lavori di quel contesto di “pornomiseria”, termine che evidenzia l’ambiguità di una produzione critica essenzialmente opportunistica rispetto alla povertà di cui si occupa. In questa biennale mi è parso di incontrare un atteggiamento nei confronti della miseria della modernità occidentale capitalista patriarcale antropocentrica antropocenica per certi versi analogo. Il fugace richiamo a una “prospettiva da cui agire” sembra troppo evanescente per poter davvero fungere da motore immobile di un’operazione tanto complessa e ricca di intelligenza come questa Biennale di Venezia.

Fievole come le lucciole del Padiglione Italia.

Qui la delusione si aggiunge all’amarezza. Perché attribuirci l’immagine di Paese dalle fabbriche vuote? È vero che la Biennale Arte non è un’Expo, ma di fabbriche attive (tessili, per restare alla lettera dell’installazione di Gian Maria Tosatti) ce ne sono ancora molte in Italia. Forse, altrove, altre voci sapranno raccontare questa realtà, addentrandosi al di là del sogno (o dell’incubo) verso gli spazi del progetto.

Il potere delle pratiche.

In conclusione, l’evocazione della Carrington apre un vaso di Pandora che pesca nel surrealismo (da Hieronymus Bosch al milieu Dada) un afflato emancipatore di cui c’è bisogno, ma l’immaginazione al potere non basta, come non basta il potere all’immaginazione: serve anche una buona dose di pratiche, metodi, prototipi e i loro effettivi risultati. Che peraltro sono già qui, nelle nostre città, nell’occidente come nel global south.

Il lavoro sul simbolico e sull’immaginario che accuratamente e profondamente fa questa Biennale manca del suo correlato pragmatico sul piano delle azioni, delle risposte e – sì, diciamolo perché ce ne sono – delle soluzioni. Immaginario sociale e pratiche socialmente impegnate – opportunamente connesse tra loro – possono operare l’arco voltaico della cui energia abbiamo bisogno.

A mio personale parere, serve un caglio per i sogni e questo caglio sono le pratiche.

Paolo Naldini è Direttore Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, Biella.

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