-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Il corpo è la superficie pittorica di un atto di resistenza: intervista a Orlan
Arte contemporanea
Friedrich Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, affermava: «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza». Questa riflessione si adatta agevolmente all’opera di ORLAN, artista visionaria che ha fatto del proprio corpo il principale mezzo espressivo, ridefinendolo come un’entità in continua trasformazione e affrancandolo dagli standard estetici imposti dalla società, dalla cultura e dall’economia.
Il corpo non è solo un involucro passivo ma una narrazione vivente, uno spazio di libertà espressiva che, se lasciato manifestarsi senza costrizioni, racconta storie senza parole. Così come la rivoluzione dei Beatles iniziò dalla loro “frangetta libera” che sfidava le convenzioni prima ancora che la musica pregressa, ORLAN sfida la pittura e l’arte con il proprio corpo, operando una dichiarazione di libertà e ribaltando le imposizioni culturali con prospettazione di nuove possibilità di esistenza estetica e fisica.

L’arte di ORLAN è un atto di resistenza contro la dittatura della bellezza ideale. La sua pratica si fonda sulla negazione di un’estetica assoluta e metafisica che impone ai corpi reali di conformarsi a standard predefiniti. In questo senso, i suoi interventi chirurgici performativi non sono semplici modifiche corporee ma veri e propri manifesti contro il dogmatismo estetico.
ORLAN afferma la possibilità di intervenire sul proprio corpo senza che “il cielo ci cada sulla testa”, rivendicando il diritto di autodeterminazione estetica e identitaria. Il corpo, per ORLAN, è scultura e superficie pittorica insieme. Materia malleabile, da modificare e rimodellare, ma anche tela su cui tracciare nuovi segni e cancellare quelli imposti dalla cultura dominante. L’artista fa della pelle un luogo di sperimentazione, un campo di battaglia in cui si combatte per ridefinire il concetto stesso di bellezza e di identità soggettiva.

«Il corpo è misura del mondo». Questa idea, che trova le sue radici nella filosofia presocratica di Protagora – secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose – è centrale nella ricerca di ORLAN. Il suo ORLAN Corps diventa uno strumento per misurare lo spazio, affermando che la percezione della realtà è inscindibile dalla nostra dimensione fisica. Se fossimo di grandezze differenti, il mondo ci apparirebbe diverso: la conoscenza e la rappresentazione della realtà sono sempre filtrate attraverso il nostro corpo e la nostra esperienza sensoriale.
In ultima analisi, l’opera di ORLAN cerca di superare il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa. Il corpo non è più una mera estensione materiale, né la mente un’entità separata: ORLAN propone una nuova unità vibrante, in cui emozione e pensiero si manifestano nella carne viva, senza dicotomie artificiose. Con il suo lavoro, l’artista francese ridefinisce lo statuto del corpo, trasformandolo in un campo di possibilità infinite, in cui l’identità si fa fluida, mutevole, libera da vincoli e stereotipi.
ORLAN non si limita a interrogare l’estetica, ma pone questioni filosofiche fondamentali sulla natura dell’essere e del divenire. Il suo corpo, sempre in trasformazione, è un manifesto vivente che invita a ripensare il nostro rapporto con la corporeità e con il mondo che ci circonda. Ne parliamo con la stessa artista, che abbiamo incontrato a Milano per questa intervista.
Lei sostiene che tutto il suo lavoro si oppone agli standard di bellezza comunemente accettati. Dunque, la sua intenzione è stata quella di eliminare qualsiasi relazione tra la bellezza reale e quella ideale? In altri termini, ritiene che l’esistenza di un concetto di bellezza ideale e metafisica condizioni gli individui e i corpi reali, costringendoli ad adattarsi a determinati canoni e limitando, di conseguenza, la loro libertà espressiva e identitaria?
«Per me la bellezza non esiste in sé. È la nostra percezione, dovuta all’ambiente in cui siamo nati e a quello che ci siamo costruiti, che ci fa trovare qualcosa bello o no. Nella mia serie Self-Hybridation Africaine ho lavorato partendo da fotografie etnografiche. Ho creato un’opera manifesto ibridandomi con la rappresentazione di una donna nera con un enorme labbro allungato (ornamento labiale a forma di disco piatto), che appare molto sicura del proprio potere seduttivo perché nella sua tribù, in quell’epoca, colei che aveva il labbro più grande faceva eccitare di più gli uomini. Quindi, per lei andava tutto bene. Mentre oggi, se avessimo quei labbri, tutti si girerebbero dall’altra parte, saremmo fuori dai canoni della seduzione. La bellezza non è altro che una questione di diktat dell’ideologia dominante in un certo punto geografico e storico. Questi diktat, queste gabbie, ci rinchiudono e ci impediscono di essere nella nostra totalità. Io mi sono sempre battuta contro tutto ciò! Mi piace essere sorpresa, mi piacciono le persone che si creano un’immagine, che fanno un passo di lato, un biglietto da visita il più vicino possibile a ciò che si è e/o all’immagine che si vuole produrre, alla propria cultura, ai propri gusti. Un’invenzione di se stessa».

Lei afferma di considerare il corpo come una scultura, o meglio, come materia scultorea suscettibile di essere modificata e rimodellata.
«Ho iniziato la mia opera con la scultura, il disegno e la pittura, poi ho considerato il corpo come un materiale tra gli altri materiali. Lavoro sullo statuto del corpo nella società, attraverso tutte le pressioni: culturali, tradizionali, politiche e religiose che si imprimono nei corpi, e in particolare nei corpi delle donne. Voglio mostrare fino a che punto il corpo possa essere un medium artistico, politico, sociale e uno spazio di dibattito pubblico».
Se ho ben compreso, oltre a questa visione plastica del corpo, nella sua opera emerge anche un altro aspetto: la concezione del corpo come una superficie pittorica su cui dipingere, cancellare e ridipingere, ridefinendo continuamente le forme di una nuova bellezza libera da ogni stereotipo. È corretto dire che, attraverso il suo lavoro, lei intenda esplorare e sovvertire i canoni estetici tradizionali, trasformando il corpo in un supporto artistico dinamico e in continua evoluzione?
«Voglio dire cose importanti per la mia epoca, interrogando i fenomeni sociali. Ho creato le operazioni-chirurgiche-performance proprio per mettere in discussione, per sregolare la chirurgia dalle sue abitudini di miglioramento e ringiovanimento, realizzando delle operazioni chirurgiche che non erano pensate per apportare bellezza, ma bruttezza, mostruosità, indesiderabilità. L’idea centrale di queste operazioni era combattere gli stereotipi, contrastare i modelli. Non sono contro la chirurgia estetica, ma contro l’uso che se ne fa. Ho utilizzato questa tecnica per creare un’invenzione di me stessa, attaccando il famoso “maschera dell’innato”. Mi sono fatta impiantare delle protesi in silicone solido, di quelle che si usano normalmente, e mi si descrive come una donna con due bozzi sulle tempie — si potrebbe davvero pensare che io sia un mostro, abominevole, indesiderabile. Quando mi si guarda, non sempre cambia qualcosa, ma potrebbe cambiare. Quei bozzi, quegli orrori, sono infine diventati organi di seduzione. È la mia decappottabile!».
Quando lei afferma di considerare il corpo come una misura e, attraverso la sua attività artistica, realizza un’effettiva misurazione degli spazi urbani, si richiama consapevolmente a un archetipo della filosofia presocratica? In particolare, fa riferimento al pensiero di Protagora, secondo cui l’uomo, e dunque anche il suo corpo, è misura di tutte le cose? Se sì, in che modo questa concezione filosofica influenza il suo lavoro e la sua ricerca artistica?
«ASSOLUTAMENTE! Fin dal 1968 ho iniziato la mia performance del «mesurage» e l’ho praticata per tutta la vita, o quasi. L’idea di questa performance era riprendere la teoria di Protagora, «l’uomo è misura di tutte le cose», affermando invece: «l’essere umano è misura di tutte le cose» — e applicarla in modo molto concreto a un metodo pseudo-scientifico di misurazione che interroga il corpo come scala nell’ambiente pubblico.
Utilizzo il mio corpo come strumento, per misurare strade intitolate a figure storiche (quasi tutte, ovviamente, uomini, con rare eccezioni!) e per misurare istituzioni culturali come il Guggenheim, il Musée Saint-Pierre des Beaux-Arts a Lione, il Centre Pompidou, e più recentemente il museo Andy Warhol a Pittsburgh, il M HKA ad Anversa e molti altri…
Ho perfino misurato l’Unité Le Corbusier a Firminy e il Vaticano, tra le colonne di Piazza San Pietro! Ho anche creato materialmente un nuovo strumento di misurazione: lo standard del corpo-Orlan.
Il protocollo dei mesurage è molto preciso: indosso un abito fatto con le lenzuola del mio corredo — sempre lo stesso, fino a che non è completamente (o quasi) logoro. Misuro il luogo con il mio corpo: mi sdraio a terra, traccio una linea con il gesso dietro la testa, poi mi metto a quattro zampe, avanzo e mi sdraio di nuovo, ponendo le scarpe a ridosso del segno precedente. Con uno o più testimoni, conto il numero di «corpi-Orlan» contenuti in quello spazio. Scrivo un verbale. Cerco dell’acqua. Tolgo l’abito. Lo lavo in pubblico.
Prelevo l’acqua sporca in flaconi che poi vengono etichettati, numerati e sigillati con la ceralacca. Da questi materiali realizzo una piccola edizione, accompagnata dalla foto del verbale. Poi assumo una posa finale, ispirata alla Statua della Libertà, che mantengo per alcuni minuti. Espongo poi questi prelievi, i verbali, fotografie e video, targhe commemorative, l’effigie a grandezza naturale dell’ultima posa, l’abito tra due lastre di vetro o plexiglas (come quello acquistato dal Centre Pompidou, molto bello, molto usurato), oppure lo standard corpo-Orlan: tutti reliquiari concreti di momenti effimeri.
Sempre nell’ottica di usare il mio corpo come strumento di misura, ho realizzato numerosi corpi-Orlan di libri, passando dal corpo al corpus. Ogni volta chiedevo a amici — spesso provenienti da ambiti diversi dal mio — di offrirmi un libro che avesse segnato, orientato le loro riflessioni o la loro vita. L’idea era mostrare quanto la lettura sia una finestra aperta sul mondo, sull’altro, una possibilità di emancipazione, di andare altrove, di pensare diversamente, pensare contro sé stessi.
La maggior parte del tempo non dico “io sono”, ma “io siamo”. Voglio mostrare l’infinità di esseri che si celano dietro il “io” e la possibilità di reinventarsi, che permette di essere nella nostra totalità. Perché siamo costituiti da tutte le strutture che ci hanno formati: genitoriali, di classe sociale, di paese, di ambiente, ecc. Poi disponevo tutti i libri sul pavimento e mi sdraiavo su di essi, in lunghezza. Successivamente li leggevo e li annotavo, secondo le righe corrispondenti a un corpo-Orlan. L’ultima volta è stato durante la mia residenza al Getty Research Institute, nel 2007.
La questione della scala è intrinsecamente legata alla mia critica delle norme sociali, culturali e politiche. Attraverso le mie performance, metto in luce una tensione fondamentale tra rappresentazione, corpo e percezione del pubblico. Il corpo non è più soltanto scultura, ma strumento di misura, supporto di interrogazioni filosofiche e scientifiche, dove il privato si mescola al pubblico, il visibile all’invisibile. La scala, che sia concettuale, spaziale o temporale, diventa uno strumento di destabilizzazione e trasformazione di queste norme prescritte».

Madame, noi italiani chiamiamo i francesi “i nostri cugini di oltre-alpe”; sente anche lei una certa parentela con l’Italia ed in particolare con l’arte che qui si è espressa?
«Si è detto che il barocco fosse il mostro del classicismo, e che le donne fossero il mostro dell’uomo! I detrattori del barocco affermano che sia di pessimo gusto, che sia nel “troppo”. Nel 1968 ho fatto dei viaggi in Italia per studiare il barocco e comprendere questa avversione. In quell’occasione ho realizzato il mesurage di Piazza San Pietro a Roma, tra le colonne del Vaticano. Questo viaggio di studio mi ha permesso di individuare opere di grandissima importanza nella storia dell’arte. Il barocco mi ha dato moltissimo, e ho lavorato su questa problematica per oltre dieci anni nella mia grande serie Étude documentaire : Le Drapé – Le Baroque. La cultura giudaico-cristiana ci impone di scegliere tra il Bene “o” il Male.
Il barocco ci invita a riflettere su questo “o” e a usare invece il “e”: il Bene “e” il Male, perché nell’opera del Bernini — che mi ha molto ispirata — ci mostra Santa Teresa godere della freccia dell’angelo in un’estasi estatica e erotica. Jacques Lacan ne ha parlato molto nel suo libro Encore. La maggior parte delle mie opere sono costruite su questa lezione del barocco. Nel 1979 ho fatto una performance molto importante a Palazzo Grassi a Venezia — uno strip-tease della Madonna fino alla nudità integrale.
Sono tornata nel maggio del 1981, invitata da Renato Barilli, che ha organizzato un tour delle mie performance durante la quinta edizione della Settimana Internazionale della Performance — dove sono intervenuta alla Pinacoteca di Ravenna, al Teatro La Soffitta di Bologna, al Teatro Municipale Ariosto di Reggio Emilia e al Museo di Piacenza.
Nel settembre 1981 ho anche partecipato alla terza edizione degli Incontri di Martina Franca — manifestazione organizzata dallo Studio Carrieri e dedicata quell’anno all’arte e al teatro, sotto la direzione di Enrico Crispolti e Vittorio Fagone. Da allora ho avuto il piacere di realizzare numerose performance, mostre e conferenze in Italia».
L’uso della macchina dell’algoritmo, a suo avviso, limita o amplifica il potenziale creativo dell’artista?
«Dico “QUESTO È IL MIO CORPO, QUESTO È IL MIO SOFTWARE” perché non credo nell’anima. Ho sempre voluto vivere con il mio tempo. Non sono né tecnofila né tecnofoba, ma adoro vivere con i progressi tecnologici della mia epoca. Non sono soprattutto per la decrescita. Quando ero adolescente, nei miei sogni più sfrenati non avrei mai potuto immaginare che un giorno avrei avuto un Android nella tasca che mi avrebbe detto dove mi trovavo e a quale distanza da un museo da visitare, e a cui avrei potuto porre una quantità di domande a cui la maggior parte degli adulti non sapeva rispondere o non voleva rispondere, o lo facevano in modo molto approssimativo, facendo finta di sapere anche se non sapevano. Sono sempre stata una pioniera nell’uso dei nuovi media e delle nuove tecnologie. Mai uso una tecnologia per la tecnologia, ma perché questa mi permette di dire cose importanti per la mia epoca e per la produzione concettuale delle mie opere.
Mi sono interessata al video sin dai suoi inizi e in particolare al Minitel, precursore di Internet, sin dal suo arrivo nelle nostre case nel 1980. Più recentemente, ho creato opere in realtà aumentata per la mia serie Self-hybridations des masques de l’Opéra de Pékin. All’Opera di Pechino, le donne erano vietate; erano gli uomini a interpretare i loro ruoli. Dopo la mia opera Tentative de sortir du cadre del 1964, esco dalle mie opere in avatar se si scarica l’applicazione Arti Vive, perché ho fatto scansionare il mio corpo e poi l’ho fatto articolare e programmare affinché il mio avatar potesse eseguire tutte le acrobazie dell’Opera di Pechino. Si può allora fotografarsi con le mie opere e l’avatar e inviare le foto in tutto il mondo come qualsiasi altro selfie.
Nel 2018 ho creato il mio robot, “Ma Robote”, una scultura in movimento che mi somiglia e costituita da un generatore di testo e da un generatore di movimento: l’Orlanoïde, esposto al Grand Palais nell’ambito di Artistes et Robots. Ho poi creato il mio ologramma: l’Orlanogramme, esposto attualmente in musei in Corea. L’avatar mi somiglia e parla con la mia voce, e questo in tutte le lingue. È un’opera interattiva. Risponde a tutte le domande del pubblico in base alla mia vita, alle mie opere, ai miei gusti, alla mia visione del mondo grazie a una IA costituita dalla mia autobiografia Strip-tease: Tout sur ma vie, tout sur mon art, dalle mie conferenze, dalle mie poesie, dalle mie interviste, ecc. D’altra parte, costruisco opere con IA generative di immagini come trama di creazione pittorica che poi rielaboro in un secondo tempo.
Ho proceduto in questo modo nella mia serie Les animaux en voie de disparition et nouveaux robots en objets et matériaux recyclés. Punto su una seconda ondata di tecnologie eque, responsabili, in perfetta simbiosi con il vivente e capaci di ricostruire ciò che le prime ondate di tecnologie hanno distrutto, mettendo in discussione il clima, l’inquinamento e l’Antropocene (la Noocène).
E vorrei citare Ada Lovelace a cui ho reso “Femmage” in tutta sororità ibridandomi con lei nella mia serie Je t’autorise à être moi, je m’autorise à être toi realizzata parzialmente con IA generativa. Lei è la grande pioniera, a lungo cancellata, inventrice del primo algoritmo informatico della storia. Senza di lei non avrei potuto creare opere con le nuove tecnologie».