29 ottobre 2022

Le sensibilità percettive: intervista a Grazia Varisco

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È una delle artiste italiane più riconosciute e con una carriera decennale: abbiamo intervistato Grazia Varisco in occasione della sua personale "Sensibilità Percettive" alla Fondazione Biscazzi-Rimbaud, a Lecce

Grazia Varisco fotografata da Lorenzo Palmieri

È in piena sintonia con il lavoro di ricognizione e rivalutazione delle artiste compiuto da Cecilia Alemani nell’ultima Biennale di Venezia, prossima alla chiusura, la nuova mostra della Fondazione Biscozzi-Rimbaud di Lecce. Dopo Angelo Savelli e Salvatore Sava è il momento di una donna: Grazia Varisco, tra le protagoniste della recente kermesse veneziana, nella sezione “Tecnologie dell’incanto”, insieme a Marina Apollonio, Dadamaino, Nanda Vigo, Laura Grisi e Lucia Di Luciano. Reduce dalla recente antologica a Palazzo Reale a Milano, la prima dedicatagli dalla sua città, composta da oltre 150 opere, Varisco presenta negli spazi della Fondazione leccese la personale “Sensibilità percettive”, a cura di Paolo Bolpagni, visibile fino all’8 gennaio. Una piccola ma preziosa mostra di diciassette opere che coprono l’intero arco della sua carriera, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009, in un percorso in cui i singoli lavori costituiscono un corpo unitario, pur conservando ciascuno la propria individualità. Artista italiana tra le più note e significative a livello internazionale, Grazia Varisco si racconta qui in un’intervista che, come la mostra pugliese, ripercorre la sua importante carriera.

Grazia Varisco, Sensibilità percettive – © Foto Francesco Conti

È stata allieva di Achille Funi artista sempre legato alla figurazione. Lei che è invece artista d’avanguardia tout court, che insegnamenti sente di aver tratto da un maestro come lui?
La decisione di iscriverci alla cattedra di Funi, con Gianni Colombo e Davide Boriani (Anceschi e Devecchi arrivarono subito dopo), dipende dal fatto che con lui si praticava l’affresco. L’affresco è qualcosa che si svolge nel tempo. La T del Gruppo T sta per Tempo. Il tempo non ha solo un prima e un dopo ma anche un grande durante, che può essere esteso o contratto. In quel durante avviene la mutazione. Quello della durata era un concetto caro ai futuristi e Funi aveva avuto un momento futurista. Pertanto era abbastanza naturale che ci concentrassimo su di lui. Funi si accorse di questo nostro interesse e per questo, a lezione conclusa, ci portava spesso nel suo studio, che era adiacente all’aula, e là si proseguiva conversando. In questa situazione che riguardava il tempo, divenuto poi tema prioritario del nostro fare, aveva un ruolo anche Guido Ballo, che all’epoca aveva appena scritto un libro sul Futurismo. Anche lui, al termine della lezione, ci portava a prendere un tè fuori da Brera (non al Jamaica, per noi giovani era troppo legato al passato). Quello della figurazione è stato per noi un momento di grande riflessione perché durante il nostro corso, per quattro anni, per quattro ore di tutte le mattine della settimana, disegnavamo il nudo. Dell’insegnamento di Funi mi è rimasta la disciplina nei confronti del lavoro, una metodicità che cerca di andare a fondo di quello che si sta tentando di fare. Il pensiero guida il lavoro dell’artista in modo mirato, quasi inesorabile, mentre “tempus etax rerum” ha scritto Ovidio nelle Metamorfosi e tu sei sempre in un cambiamento continuo. Ogni esperienza s’intreccia con la precedente e ti accorgi che tutto è legato da un filo rosso.

Grazia Varisco, Sensibilità percettive – © Foto Francesco Conti

È stata tra i fondatori del Gruppo T. Ma com’è nato e quali erano i rapporti con altri gruppi, in particolare con il gruppo N, nato a Padova in tempi coincidenti e anch’esso impegnato su ricerche optical?
Il Gruppo T è nato proprio nell’aula di Funi a Brera, la stessa in cui seguivamo le lezioni di storia dell’arte di Guido Ballo. In quel momento Ballo si stava occupando del Futurismo. Per cui la nostra tensione verso il divenire, verso il tempo che incide, è stato il movente che ha portato noi cinque (Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi, Varisco) verso interessi comuni. Il rapporto con gli artisti del Gruppo N è stato quasi immediato. Nel 1962 abbiamo tenuto una mostra nel loro spazio a Padova. Sin dal liceo eravamo insieme io, Boriani e Colombo e nel pomeriggio ci raggiungevano Anceschi, che frequentava la facoltà di filosofia, e Devecchi, che già stava lavorando nel design, applicandovi le ricerche del Gruppo T. Gli altri gruppi come il GRAV (Groppe de Ricerche d’Art Visuelle), li abbiamo conosciuti e frequentati tutti entro gli anni Sessanta, tant’è che nel 1969 eravamo tutti insieme a Campo Urbano, mostra diffusa curata a Como da Luciano Caramel. In quello stesso anno tenni anche la mia prima personale importante (la seconda dopo quella da Vismara nel 1966) nella Galleria Schwarz a Milano. A Como e a Milano presentai Dilatazione spazio-temporale di un percorso, ma nel primo caso si trattava di un intervento in uno spazio aperto, nel secondo in uno chiuso. Mentre a Milano ho voluto far interagire il mio lavoro con il buio e la luce, in quella di Como ho voluto sottolineare la percezione sensoriale. Si trattava di un percorso definito in una via stretta e lunga di fronte al Duomo, all’interno del quale il visitatore percorreva la strada avvertendo ora il profumo del caffè, ora l’odore del pesce, ora il cigolio di una saracinesca. Erano tutte esperienze sensoriali che interagivano con il fruitore. Sono due opere diverse però in entrambi è sempre lo sguardo che verifica ciò che percepisce.

Grazia Varisco, Sensibilità percettive – © Foto Francesco Conti

Lei era l’unica donna in un gruppo di uomini. Cosa voleva dire essere un’artista donna negli anni Sessanta e cosa vuol dire esserlo oggi?
La bellezza della parola artista è quella che si adegua indifferentemente agli uomini e alle donne, apostrofo a parte. Quando nel 1959 i miei colleghi tennero la prima mostra del Gruppo T in Via Borgonuovo a Milano, dalla Galleria Pater, io non ero presente e chiesi loro perché. Gli interessi e le ricerche erano le medesime. Istantaneamente fui inserita nella mostra e presentai le mie primissime tavole magnetiche. Il mio ingresso nel gruppo e nella mostra fu determinato da una mia puntualizzazione. Da parte dei miei colleghi non c’era una volontà di esclusione, né io mi sono mai sentita esclusa, ma semplicemente non si prestava troppa attenzione a questi aspetti. Da quel momento in poi, sono stata molto attenta a questa separazione delle donne. Per me è come tirarsi la zappa sui piedi. Tutte le volte che sono riuscita a rifiutare la partecipazione a mostre di sole donne (e me ne sono state proposte tante) le ho rifiutate.

Grazia Varisco, Sensibilità percettive – © Foto Francesco Conti

La recente Biennale omaggia il suo lavoro e quello di altre artiste che negli anni Sessanta si sono impegnate in ricerche optical e cinetiche. Ma cosa pensa sopravviva oggi di quelle ricerche?
Entrare nella sala della Biennale in cui vi sono le mie opere è come entrare in una sagrestia. Uno spazio separato dal resto. Nel visitare la Biennale di Alemani ho avuto la percezione di una contemporaneità sbriciolata e dispersiva. Gli anni Sessanta, i tempi delle mie prime ricerche cinetiche, invece, erano i tempi della puntualizzazione, della messa a fuoco. Di quelle ricerche secondo me sopravvivono l’impegno e l’assolutezza, contrapposti all’annullarsi e allo sbriciolarsi della contemporaneità. Quelle odierne sono immagini transitorie. Eppure il transitorio dovrebbe piacermi.

Grazia Varisco, Sensibilità percettive – © Foto Francesco Conti

Nel suo lavoro il mezzo tecnologico, predominante nelle opere degli anni Sessanta, sparisce nei decenni successivi per lasciare il posto ad opere fatte da materiali più consueti come ferro, legno, cartone. Questo “ridimensionamento tecnologico” è collegabile all’emergere di problematiche ambientali e di preoccupazioni legate all’ipertecnicizzazione della realtà?
In realtà no. Fino al 1970-71 ho utilizzato materiali pesanti, voluminosi, che imponevano anche uno sforzo fisico: il vetro industriale, il perpex, il neon, il motorino elettrico, era come se avessi fatto un’indigestione. Ho avvertito il bisogno di una pausa. Nella pausa mi è venuto naturale prendere dei quaderni a quadretti e disegnare punto, linea, punto. È allora che è intervenuto il caso, che è sempre stato protagonista nella mia esperienza artistica: una ventata dalla porta ha fatto piegare la pagina donandomi la tridimensionalità. Sono nate così le mie Extrapagine.

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