18 giugno 2022

Lucio Fontana, Autoritratto – Fondazione Magnani-Rocca

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L’opera completa di Lucio Fontana descritta dall’artista stesso, in un viaggio all’interno della sua personale visione artistica e concettuale

Lucio Fontana, Concetto spaziale, New York, 10-1962, lacerazioni e graffiti su rame, 234x282 cm.

“La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita, un’x che, per me, è la base di tutta l’arte contemporanea”. Così, Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe 1899 – Comabbio 1968), spiegava la sua arte “spaziale” in una celebre intervista realizzata da Carla Lonzi, in Autoritratto, nel 1969. Poche parole per centrare l’obiettivo sulla sua poetica. Tanto per evitare che qualcuno dica “che è soltanto un buco”, e basta.

Lucio Fontana, Concetto Spaziale – La fine di Dio, 1963

A riportare i riflettori sull’arte di Fontana e, in particolare, su quel lavoro realizzato dalla storica dell’arte per spiegarne le peculiarità, è la mostra “Lucio Fontana. Autoritratto”, ospitata dalla Villa dei Capolavori di Mamiano di Traversetolo, nei pressi di Parma, sede della Fondazione Magnani-Rocca, curata da Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi. Creata proprio a partire dal rapporto tra l’artista, maestro assoluto dello Spazialismo e dell’arte del XX secolo, e Carla Lonzi, allieva del grande Roberto Longhi, che ha rivoluzionato l’idea della critica militante con il suo volume di interviste “Autoritratto. Accardi Alviani Castellani Consagra Fabro Fontana Kounellis Nigro Paolini Pascali Rotella Scarpitta Turcato Twombly”, edito da De Donato, Bari, nel 1969, l’esposizione si compone di circa cinquanta opere, tra le quali si possono ammirare le creazioni corrispondenti ai vari periodi di attività: dalle sculture degli anni Trenta ai Concetti spaziali (con i vari Buchi e Tagli) degli anni Quaranta ai Sessanta, oltre ai Teatrini e alle Nature bronzee. Con le spettacolari ed enormi opere New York 10 del 1962, pannelli di rame con lacerazioni e graffiti, in dialogo con la luce a evocare la sfavillante modernità della metropoli, e la potente (e immensa) La fine di Dio, del 1963, realizzata a olio, squarci, buchi, graffiti e lustrini su tela, emblematica della concezione spazialista e insieme religiosa dell’artista.

Veduta della mostra, ph. Tommaso Crepaldi

Il percorso si chiude con opere di Enrico Baj, Alberto Burri, Enrico Castellani, Luciano Fabro, Piero Manzoni, Giulio Paolini, Paolo Scheggi, provenienti dalla collezione personale di Fontana, per mettere in luca gli artisti più giovani da lui seguiti e promossi.
L’esposizione segue, dunque, da un punto di vista narrativo, la conversazione tra Fontana e Lonzi, offrendo così un percorso antologico (ma non dogmatico), con lavori che toccano i momenti salienti e peculiari della ricerca fontaniana: un itinerario nel pensiero e nella pratica di un artista che riteneva che l’arte dovesse essere vissuta attraverso una nuova dimensione, all’interno della quale entravano anche nuove tecnologie e materiali. Vengono esposte opere particolarmente suggestive, come le serie fotografiche scattate da Ugo Mulas a Fontana, del quale sono esposte anche due opere appartenute al grande fotografo; di una di esse è esposta la documentazione fotografica dell’intera genesi, dal primo “buco” all’opera compiuta, un unicum sia nella storia del fotografo sia in quella dell’artista.

Veduta della mostra, ph. Tommaso Crepaldi

Carla Lonzi (Firenze 1931 – Milano 1982), dopo aver avviato la sua carriera collaborando con celebri gallerie e periodici, presentava il lavoro di Carla Accardi alla Biennale di Venezia del 1964. Nello stesso periodo, iniziava a raccogliere interviste a vari artisti, con l’ausilio di un registratore (strumento innovativo per la critica d’arte dell’epoca), poi trascritte e riassemblate per essere edite appunto nel volume “Autoritratto”. Ogni artista parla dunque in prima persona – con tanto di discorsi colloquiali, senza filtri e spero anche sopra li righe – esponendo articolate riflessioni sulle proprie ricerche, sul sistema dell’arte nonché sulla propria vita privata. Emergono le idee di partecipazione e di complicità tra il critico e l’artista, che scardinano la visione della critica ufficiale del tempo, con giudizi molto schietti da parte di Fontana su grandi artisti come Jackson Pollock e Robert Rauschenberg. Una delle maggiori peculiarità della mostra parmigiana è l’aver recuperato il file audio della conversazione originale e integrale con Fontana, dove si può ascoltare la diretta voce dell’artista che parla del suo lavoro, della sua vita, della sua attività di collezionista ma anche di esperienze e avventure quotidiane (Lonzi pubblicherà nel volume del 1969 solo una parte della lunga intervista). Le parole di Fontana vengono qui utilizzate come installazione sonora e come come filo narrativo lungo tutto il percorso espositivo, rendendo totale l’immersione nella dimensione artistica fontaniana.
Il risultato è un progetto decisamente riuscito, reso ancora più suggestivo da una location unica nel suo genere, che è stato reso possibile grazie al supporto e al prestito di un importante nucleo di opere della Fondazione Lucio Fontana di Milano. Oltre ad altri prestiti provenienti dal Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dal Museo Novecento di Firenze, dallo Csac, Università di Parma, dalla Collezione Intesa Sanpaolo, dal Patrimonio Artistico del Gruppo Unipol, dalla Collezione Barilla di Arte Moderna, dall’Archivio Ugo Mulas, dalla Biblioteca Fondazione Cariparma, Donazione Corrado Mingardi e da altri prestigiosi Archivi e collezioni private.

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