04 marzo 2023

Paura della pittura alla Galleria Monitor di Roma. Intervista a Gianni e Giuseppe Garrera

di

La nuova sede di Roma della Galleria Monitor, nel quartiere San Lorenzo, apre con una mostra incentrata sulla “Paura della pittura”. Ce ne parlano i curatori, Gianni e Giuseppe Garrera

Matteo Fato, Florilegio 18, ossia, vigilia di un crepuscolo (serale), 1916 / 2023 (circa / about), olio su lino / oil on linen, 70 x 50 cm, cassa da trasporto in multistrato / case for transport in plywood. Courtesy the Artist and Monitor Rome, Lisbon, Pereto (AQ)

Il 4 marzo apre a Roma, nel quartiere San Lorenzo, la nuova sede della Galleria Monitor, con la sintomatica mostra inaugurale “Paura della pittura”, a cura di Gianni e Giuseppe Garrera che attraverso la propria posizione estetica ce ne raccontano gli intenti. Ricordiamo che questo titolo enigmatico si origina dal numero monografico Paura della Pittura, VI, nn. 25-27, “tutto scritto da pittori” come si legge nell’Avvertenza. Dove spicca l’articolo omonimo di Renato Guttuso – ispirato ad un testo di Carlo Levi – e apparso sulla rivista Prospettive di Curzio Malaparte tra il 15 gennaio e il 15 marzo 1942.

Flyer Paura della Pittura

“Paura” è una parola forte, che non sembra legarsi esclusivamente ad istanze artistiche, ma anche a questioni politiche. All’epoca perché il ritorno alla pittura era visto come un gesto rivoluzionario?

«È la vista della vita in un quadro a essere insostenibile, su questo Mondrian è stato chiaro: ciò che ha a che fare con la vita, ciò che appare naturale, la forma, il colore sono tragici e rendono impossibile la pura plasticità della pace di un mondo senza oggetti.

È vero che l’espressione “Paura della pittura” apparteneva a Carlo Levi, che era stato invitato a scrivere, ma Malaparte aveva chiuso in fretta la pubblicazione e Levi ne era rimasto escluso. Guttuso in una lettera a Levi si scusa dell’incidente e si giustifica anche sul furto del titolo: “A me è dispiaciuto molto che non ci fosse il tuo pezzo in questo numero del quale s’era tanto pensato insieme e il cui titolo era nato da una tua frase, ti ricordi, di ritorno da Fiesole, sull’autobus”.

D’altronde il senso ebraico della paura della pittura come terrore fondamentale e primordiale dell’idolatria e del divieto delle immagini, evocato da Levi, era incompatibile con le discussioni di Guttuso. La paura di Levi è apocalittica, quella di Guttuso diplomatica, pragmatica».

Visitando le proposte delle gallerie romane ed anche gli spunti offerti dai programmi espositivi della Quadriennale di Roma, in effetti, si respira fra gli artisti, anche giovanissimi, il desiderio di un ritorno al bidimensionale, spesso con una vocazione narrativa. Anche oggi tornare alla pittura può dirsi un gesto rivoluzionario?

«Tornare alla pittura è un gesto rivoluzionario e politico solo nella misura in cui faccia parte di una evasione dal sistema costrittivo dell’arte: ovviamente il sogno impossibile è quello di lasciare indifferenti gli animi sensibili (la reattività d’animo e la creatività sono prerogative borghesi).

È un gesto rivoluzionario solo nel senso di ritenere che qualsiasi forma d’arte che dica e voglia significare qualcosa appartenga alla sopraffazione. Permane una relazione fiabesca con la figuratività, come se ad ogni dipinto l’artista ci raccontasse la favola: “C’era una volta la pittura…”. Questa è la sola vocazione narrativa».

Grazie a Konrad Fiedler, che a fine Ottocento elaborò la teoria della pura visibilità (reine Sichtbarkeit) e poi a Heinrich Wölfflin, approdiamo ad una definizione di formalismo in pittura: l’artista rielabora la realtà secondo strutture formali interiori. C’è una predilezione per il disegno, per la linearità, per l’indefinitezza degli oggetti e una sorta di polarità tra forma chiusa e aperta, chiarezza assoluta e moltiplicatoria dei piani. Sembra che Guttuso celebrasse questa tendenza e ancora oggi alcuni artisti perseguono questa linea di ricerca. C’è il rischio di una ripetizione nel riproporre nel presente una poetica passata senza un valore aggiunto?

«Si racconta che Cézanne, davanti alle Nozze di Cana di Veronese, avesse affermato che l’acqua viene tramutata in vino come il mondo viene tramutato in pittura. La natura e il mondo non sono che acqua, per tramutarle in vino bisogna necessariamente dipingerle.

Però il racconto evangelico aggiunge un dettaglio sorprendente: che il vino era buono, perciò non si ferma al fatto già sbalorditivo della trasmutazione dell’acqua in vino, ma indaga anche sulla qualità della trasformazione. Questo è il valore. Tutto ciò che si dice o che si aggiunge serve solo a gestire l’imbarazzo dell’opera, la sua natura ludica e ingiustificata».

La sede della rivista di Curzio Malaparte fondata a Firenze nel 1939 si spostò a Roma, in via Gregoriana, raccogliendo intorno a sé le voci di grandi artisti e pensatori romani del tempo. Questa mostra può dirsi in qualche modo un omaggio alla città Eterna?

«Roma è l’unica città al mondo che legittima le immagini. Roma è la chiesa dove può avvenire la sacra conversazione tra le figure dei vivi e dei morti».

Thomas Braida, Il fiore avaro, 2023, olio su tela/oil on canvas, 50 x 60 cm. Courtesy the Artist and Monitor Rome, Lisbon, Pereto (AQ)

Elisa Montessori, Matteo Fato, Nicola Samorì e Thomas Braida presenti alla mostra inaugurale “Paura della pittura”, possono dirsi eredi dei maestri storicizzati ai quali si affiancano oppure propugnatori di tendenze artistiche nuove?

«Anche per i contemporanei sarà fatale diventare antichi o antiquati. Questi artisti intanto hanno dipinto un quadro fino in fondo. Abbiamo solo chiesto loro di dipingere un quadro fino in fondo. La mostra è un esercizio che deve confermare il nostro punto di vista limitato».

Nel numero Paura della Pittura si rivendica il valore dell’atto artistico come “un atto di libertà, del dipingere come un dar concretezza formale e identità alle cose” (Guttuso), parole che sembrano parlare di realismo. Sulla stessa rivista però Alberto Moravia scrive dell’anelito ad una libertà diversa e di una “sincerità non tanto completa quanto supremamente coerente e perciò spinta ai limiti estremi della fantasia”. Le opere proposte ci parlano più di realtà o di fantasia?

«Nelle forme pittoriche che contengono l’immagine del mondo, il mondo esterno è comunque negato (è la Natura che imita la Pittura, non viceversa). I soggetti sono pretesti per arginare la pittura stessa e la sua tendenza allucinatoria. Altrimenti, come scriveva Levi nella sua ben più densa versione di ‘Paura della Pittura’: il colore si staccherà dalle forme, ognuno degli indissolubili elementi dell’espressione pittorica si isolerà perdendo il legame con gli altri, e diventerà esso stesso oggetto di incomprensibile spavento».

Tra i pittori che scrissero sulla rivista ci furono oltre a Renato Guttuso anche Renato Birolli, Mario Mafai, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi, Luigi Bartolini, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio…Nella Weltanschauung della cerchia di Malaparte, Letteratura e Pittura trovavano il loro punto di incontro nell’aspirazione ad una visibilità nel senso che assumerà anche in ottica calviniana, come necessità di una traslazione dei detti e delle pennellate in una immagine ben delineata nella realtà. Ut pictura poesis, scriveva già Simonide di Ceo. Parole e gesti artistici spesso vanno a braccetto, ma non sono interscambiabili. Secondo voi fino a che punto è utile al fruitore che un artista racconti a parole la propria pittura?

«Non occorre il sovraccarico di narrazione a conforto dell’abitudine al contenuto intellettuale, se la pittura ne è già impregnata. Rispetto alla pittura qualsiasi manifestazione logica procura una visione senza immagine, anzi, la spiegazione può addirittura abolire l’immagine.

La pittura è muta come la natura. Un animale può vedere la Muta di Raffaello e somigliarvi. Le opere d’arte appartengono al mondo animale».

È vero che le opere in mostra provengono interamente dalla vostra collezione? Qual è il significato ultimo di un confronto tra gli artisti viventi rappresentati da Monitor e quelli storicizzati?

«Queste opere rientrano nella dimensione ingenua della difesa dall’iconoclastia della nostra collezione. L’indistinzione dei vivi e dei morti è la conseguenza dello stato di eccezione della mostra, per cui, come spiegava Benjamin, i morti sono al sicuro nella pittura.

La mostra non deve niente al passato: non è uno sguardo al passato, al contrario vuole che il passato le rivolga un’occhiata. In una mostra di questo tipo la prospettiva è ben diversa: non sono i vivi che guardano ai morti, ma i morti che guardano ai vivi».

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui