19 maggio 2025

Per Felipe Dulzaides l’arte accade. E smuove le fondamenta. Studio visit a L’Avana

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Dopo aver vissuto in Italia e negli Stati Uniti, Felipe Dulzaides è tornato a Cuba: l’abbiamo incontrato nel suo studio a L’Avana, per farci raccontare com'è che accade l’arte

Felipe Dulzaides

Felipe Dulzaides (Avana, 1965) gira per la città dell’Avana con un maggiolone Volkswagen verde pisello, stile fine anni ‘30 ed è con quello che ci ha accompagnati al suo studio. Dal centro della città ci si impiega circa mezz’ora. Il suo spazio si trova sul mare, in una piccola penisola dall’altra parte della baia rispetto a l’Avana Vieja, nel tranquillo quartiere Regla, accanto alla Iglesia de Nuestra Señora. Questa chiesa dedicata alla Madonna nera vede una commistione di culture. Nella stessa zona infatti si percepisce come la religione sia quella della santeria, ovvero un sincretismo tra la religione cristiana e la religione yoruba, praticata dagli schiavi africani giunti a Cuba con i coloni spagnoli.

Arrivati allo studio tutto è buio (quel giorno mancava la corrente). Allora, con Felipe apriamo tutte le finestre che danno in parte sulle caye, in parte sul mare. La prima cosa che attira l’attenzione è una lavagna di ardesia, posta all’ingresso. L’ambiente è ampio, semplice ma estremamente raffinato, emblema della filosofia del riuso di Cuba. Le pareti in mattoni ci accompagnano da un lato della stanza. Ci sediamo a un ampio tavolo di vetro e di fronte ci si apre, lungo tutta l’altezza della parete, la sua opera Bandera de mi tamaño esparcido (2007-2023).

Nello studio buio possiamo vedere solamente i contorni della bandiera della nazione, realizzata a neon e scomposta: le tre strisce blu che vanno ognuna in direzioni opposte, simbolo degli stati in cui la nazione era una volta suddivisa, le due strisce bianche su altezze diverse in onore dei combattenti idealisti, il triangolo rosso per il sangue versato e quasi al centro la stella bianca della libertà ottenuta. «È un’opera che tratta il tema della dispersione di una popolazione per l’immigrazione, è un’attualizzazione di quella che feci nel 2007 intitolata Bandera de mi tamaño», spiega l’artista. La bandiera diventa perciò allegoria del popolo cubano, disseminato per il mondo, come gli elementi che compongono la bandiera.

Felipe Dulzaides ha lasciato Cuba molto giovane, poco più che ventenne, tramite una tournée con il laboratorio teatrale Buendía, diretto da Flora Lauten: una volta arrivato in Italia con la compagnia ha deciso di restarci e interrompere la sua carriera di giovane attore. Così, nel luglio 1991 si è stanziato per qualche mese a Campagna, paese con meno di 20mila abitanti in provincia di Salerno. Racconta con il sorriso quel viaggio in macchina per andare a Roma, in cui il tramonto si univa al Vesuvio.

Tra il 2010 e il 2011 partecipa a una residenza all’Accademia Americana di Roma che avrà come tema proprio quello del ritorno: andare a rivisitare i luoghi e le persone che al tempo lo hanno accolto (Campagna, Roma e Sperlonga). Da qui nascerà il progetto Full Circle (2010-2011) in cui ripercorre quel viaggio ma al contrario, ispirandosi a oggetti incontrati per le strade di Roma. La sua visione si rivela secondo una forma ciclica, ragion per cui, dopo questa serie, decide di ritornare a vivere e lavorare a l’Avana.

Una parola ricorrente nei suoi discorsi è appunto regreso, ritorno. Nella sua ricerca infatti questo tema si trova in campi diversi della sua esperienza non solo sociale ma anche famigliare. Felipe Dulzaides possiede lo stesso nome di suo padre, celebre musicista e compositore nella scena cubana e internazionale. Questa omonimia ha fatto sì che l’artista-figlio si dovesse spesso fronteggiare con l’artista-padre in quel limbo tra la consapevolezza dell’eredità paterna e il bisogno di affermazione del suo essere altro dalla figura genitoriale.

Da questo duplice sentimento nasce l’opera It is my name (2009). Il lavoro consiste in un’installazione di una notte: fuori dal club Bimbo’s 365, uno dei più antichi locali notturni di San Francisco conosciuto per la musica jazz e rock, l’artista fa porre sull’insegna la scritta “TONITE FELIPE DULZAIDES”. Omaggia il padre facendo credere agli avventori del locale di trovare lui come musicista quella sera, conferendogli anche quella romantica soddisfazione di averlo – idealmente – fatto suonare dove nella realtà non suonò mai. Invitò anche qualche amico a bere una birra nel bar di fronte, mentre tutti ammiravano la scritta che, sì, riporta il nome del suo caro padre ma, in fin dei conti, è anche il suo.

La video-installazione La vie en rose (2015-2023), attualmente esposta a Factoría Habana nella mostra collettiva ESPIRALES TRASATLÁNTICAS. BRASIL/CUBA, «È il risultato del ritorno al luogo in cui si è svolta la mia infanzia. Rivedere foto, spazi, testimonianze, avvia il processo individuale di guarigione della ferita emotiva prodotta dalla perdita di quelle esperienze. La memoria viene ricostruita e così recupero tutto quel tempo, così prezioso per ogni individuo, che è l’infanzia», racconta Dulzaides. L’opera si costituisce di una tavola ricoperta interamente dalla sabbia di Varadero, città in cui è cresciuto nei suoi primi anni, in fondo la maquette di cartone che riproduce fedelmente la sua casa e, a fare da sfondo, un video proiettato che riunisce fotografie della casa, del mare caraibico di Cuba e della sua infanzia, in cui sono stati nascosti i volti per conferire loro una universalità condivisa. Come colonna sonora, La vie en rose, cantata da Doris De La Torre con il gruppo Los Armonicos di suo padre Felipe.

Oltre alla sua permanenza in Italia, Dulzaides si trasferì a Miami nel 1993, dove seguì i corsi di fotografia documentaria del Miami Dade Community College. In seguito incontrò la California trasferendosi a San Francisco per studiare al San Francisco Art Institute. Sarà proprio questo momento a far virare la sua ricerca su una direzione di tipo concettuale, grazie ai suoi mentori Paul Kos, Tony Labat e David Ireland.

Come si è già potuto notare, Dulzaides lavora nell’arte assecondando un principio di improvvisazione, come il padre nel jazz. Procede secondo dei lucky accidents, incidenti fortuiti, che gli permettono di lavorare secondo un’economia dei mezzi in cui l’opera si sostanzia della poeticità che sa conferire alla documentazione, agli objets trouvés e alle allegorie di significato che l’artista sviluppa, tramite uno spostamento del loro valore semantico apparente. L’arte gli “capita”, mentre vive.

Così, al periodo trascorso nella città californiana risalgono i lavori Following an orange (1999), video in cui filma un’arancia che si salva dalla pericolosa discesa per le strade d’America, o anche Dialogue with a foghorn (1999-2002), in cui l’artista si rapporta alla nebbia girando attorno alla camera su una bicicletta e un altro video in cui risponde ad un “foghorn”, una sirena che emette un suono per avvisare le navi in mare in caso di nebbia. Nel momento in cui l’artista fischia in risposta alla sirena, illumina il suo volto con una torcia per fare in modo che il pubblico possa vederlo.

Siamo seduti su una panca l’uno accanto all’altra e Felipe racconta i suoi lavori attraverso l’ultimo catalogo realizzato per la sua mostra retospettiva Como círculos en el agua al Centro de Arte Contemporáneo Wifredo Lam di Avana, a cura di Yanet Oviedo. La stessa curatrice descrive la produzione dell’artista come una «Cartografia di vita», una produzione che si basa su una geografia di esperienze in cui l’arte, più che essere ricercata, succede. «No hay casualidad», non c’è casualità, dice Felipe. Sebbene qualcosa possa avvenire apparentemente per caso, l’artista lavora sull’accaduto articolandolo in un progetto.

Nella serie Murales de siempre (2013-2014) Dulzaides realizza dei dipinti su tela che riproducono dei murales a cui però ha tolto la ragione principale per cui erano stati creati: trasmettere un messaggio scritto. Cancella tutti i testi e lascia solamente le decorazioni messe per abbellire o esaltarne la scritta, quasi sempre di dubbio gusto. Approccia con umorismo le denunce taciute o inascoltate facendone dei quadri infantili, come delle bacheche scolastiche a cui sono stati tolti gli annunci.

La musica però resta e si sente, anche se per immagine. Sinesteticamente, vediamo il suono che Dulzaides ci lascia En sus manos (2017-2023). L’artista immortala le mani degli “amoladores”, una sorta di arrotini ambulanti, che girano per la capitale cubana con una armonica giocattolo. Lo strumento gli permette di attirare e di annunciarsi alle persone che, così facendo, si affacciano sulla strada, mentre loro affilano i coltelli su una ruota in pietra generando scintille gialle, come in un incantesimo.

Cuba non butta via niente, non può. Cuba aggiusta, fa manutenzione, ricicla. Il riciclaggio è entrato talmente nel retaggio culturale che una semplice bottiglia di plastica diventa unità di misura. La chiamano “pepino” ed è una bottiglia in plastica che, venendo utilizzata e riutilizzata per contenere qualunque cosa non solo bibite ma anche detersivi o altro, diventa la maniera per misurare le quantità. Per questa ragione Dulzaides ha pensato di rendergli omaggio con Monumento al pepino (2015-2023). Ha realizzato il calco in bronzo della bottiglia e l’ha messa su un piedistallo in marmo nobilitando così un oggetto povero ma talmente popolare e amico da meritare un riconoscimento ufficiale.

Per Felipe, la carriera d’artista è sempre andata di pari passo con un impegno sociale che si esprime attraverso un tentativo di cambiare le architetture di Cuba, troppo spesso lasciate in stati di completo abbandono. Secondo la concezione di psicogeografia di Guy Debord, l’ambiente geografico agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. Proprio seguendo una visione analoga, Dulzaides ha intrapreso un progetto installativo iniziato nel 1999 e ancora in corso, che si confronta con le opere architettoniche incompiute che compongono la Escuela Nacional de Arte. Edifici in mattoni e terracotta all’avanguardia che dall’alto paiono un corpo di donna, vennero progettati dagli architetti Ricardo Porro, Roberto Gottardi e Vittorio Garatti.

Le strutture rappresentavano un’utopia esuberante che si stava realizzando nel 1961, su idea di Fidel Castro e Che Guevara. La loro realizzazione venne interrotta nel 1965 a causa di un cambio di stile e la perdita del supporto politico agli architetti. La scuola venne comunque aperta, sebbene incompiuta. Dulzaides comincia il suo intervento con una semplice bonifica di un canale d’acqua, ormai stagnante. Da questo gesto l’artista ha dato avvio a un dialogo solidale con gli architetti per continuare e concludere questa Utopia Posible. Recentemente Dulzaides ha iniziato a collaborare con un gruppo di professionisti esperti nella conservazione degli edifici per trovare il modo di concludere e preservare questi capolavori architettonici e lavorare ad altri interventi analoghi sul territorio.

Da qualche parte bisogna pur cominciare. Come quei quattro pomodori che hanno sollevato un vialetto in cemento alterandone il corso. Resistono nonostante la loro natura fragile e inerte. Uprising (2005), rivolta, si chiama la fotografia ed è proprio simbolo del potere dell’arte che per quanto piccola o fragile smuove le fondamenta più solide. E come diceva Kundera: «La grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste».

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