24 agosto 2021

Revue Noire, una storia delle arti africane contemporanee

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Revue Noire, in trent'anni di attività editoriale, ha messo in luce fotografi, artisti, stilisti, scrittori, registi, danzatori. Una rivista che ha mostrato tutto e di più, compresi i lati più tragici della vita africana. Ne abbiamo parlato con il fondatore, Jean-Loup Pivin, in occasione della mostra a Tolosa

Photo Rotimi Fani Kayode, Lorne, 1989, Revue Noire

30 anni fa nasceva Revue Noire e Lutteurs Noubas era sulla copertina del primo numero, ossia una scultura di Ousmane Sow I che oggi apre una mostra consacrata alla storia della nota rivista francese. 300 fotografie di 28 fotografi, e un gran numero di sculture, pitture, video, cortometraggi e installazioni di una cinquantina di artisti tracciano questo imperdibile percorso espositivo accolto a Les Abattoirs di Tolosa fino al 29 agosto. Sono 35 i numeri pubblicati dal 1991 al 2001 che hanno contribuito in modo incalcolabile a far conoscere e a riflettere sulla modernità e la creatività del continente africano e dei suoi artisti contemporanei, andando ben oltre le nozioni di postcolonialismo. Dall’Africa, passando per i Caraibi e l’Oceano Indiano, Revue Noire non è stata solo una rivista originale e inimitabile, ha anche partecipato alla produzione del Padiglione del Madagascar alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2019, è stata una galleria d’arte, e una casa di produzione musicale e di cortometraggi.

Cover Revue Noire numero 1, 1991, Ousmane Sow, Lutteurs Noubas por Revue Noire

Oggi, la sua attività gira intorno alle pubblicazioni di libri d’arte. Voluta e autofinanziata da Jean-Loup Pivin, Simon Njami, Pascal Martin Saint-Léon e Bruno Tilliette raggiunti più tardi da N’Goné Fall, questo trimestrale bilingue (francese-inglese), dedicato al continente africano e alle sue diaspore, ha messo in luce i fotografi – cuore della rivista – come tanti artisti d’arte contemporanea, di moda, di letteratura, di cinema, di design, di danza e di letteratura. Una rivista che ha mostrato tutto e di più, anche i lati più tragici della vita, come nel numero 19 del 1995 intitolato Artisti africani e AIDS. In quest’ambito Revue Noire ha prodotto tre cortometraggi – qui presentati in loop – rispettivamente di Bouna Medoune Seye, di Gahité Fofana e di Dorris Haron Kasco. Quest’ultimo è noto per Les Fous d’Abidjan, una serie pubblicata nel 1992 da Revue Noire, e qui esposta, sui malati mentali che errano per le strade della città ivoriana. In questo trittico filmico la camera segue con occhio attento ambienti, passanti e i tre protagonisti: un tossicodipendente sieropositivo che vaga di notte per i bassifondi di Dakar in cerca dell’ultimo buco; una giovane sieropositiva colta nella sua routine quotidiana a Conakry; una madre che prepara alla morte il figlio sieropositivo.

Cover 1994, Cameroun, Pascale Marthine Tayou

Tre talenti registici che documentano, ritraggono e testimoniano spaccati di vita in cui il peso dell’esistenza è reso dall’essenzialità dei movimenti della camera, la quale registra il dramma attraverso immagini autentiche. La stessa tematica è sviluppata in Recto-Verso sur cadre, quattro sculture della serie Fights against aids (1994) di Pascale Marthine Tayou, qui in parte esposte, e che troviamo sulla copertina del numero 13 (1994) dedicato al Camerun. È presente di Tayou anche Fétiche Revue Noire (2016), che vede impilate, tra ritualità e blasfemia, 50 numeri della rivista su uno zoccolo in acciaio satinato a mo’ di totem. Parlare della diversità culturale e artistica africana, di talenti sconosciuti e toccare tematiche sempre diverse attraverso il prisma del mondo delle forme, erano tra gli obiettivi di questo trimestriale. L’omossessualità è stata trattata sin dal primo numero con un servizio sulla scena gay nera londinese, o nel terzo numero attraverso la fotografia dell’anglo-nigeriano Rotimi Fani-Kayodé e del suo compagno Alex Hirst, di cui vediamo qui diversi cliché. Non mancano nomi, oggi noti, dell’arte, della letteratura o della fotografia, si va dal maliano Seydou Keïta, a Joël Andrianomearisoa, uno dei pionieri dell’arte contemporanea malgascia, allo scrittore Amadou Hampâté Bâ, a Malick Sidibé noto come l’occhio di Bamako, a Ajamu X, fotografo queer giamaicano, qui con La vie secrète de Miss Tissue, in cui esplora il desiderio sessuale, fino al togolese Philippe Koudjina, di cui viene presentata la bellissima foto che ritrae Maria Callas e Pier Paolo Pasolini all’aeroporto di Niamey (Niger, circa 1968). A 30 anni dalla creazione, i fondatori e collaboratori decennali hanno deciso di raccontare la storia della rivista e le tante produzioni in un magnifico libro di 400 pagine e 500 riproduzioni a colori, in francese e inglese.
Per saperne di più abbiamo fatto due chiacchiere con Jean-Loup Pivin, architetto e cofondatore della Revue Noire.

Revue Noire, veduta della mostra

Cosa volevate quando avete dato alla luce Revue Noire?
Volevamo dire che il mondo deve essere di tutti, ma senza cadere nella rivendicazione pura e semplice. Volevamo parlare della gente che fabbrica le forme e non della gente che le pensa. Ogni numero era dedicato a un paese in particolare, in cui venivano presentati artisti che vivevano e creavano per la gente del posto e non per l’occidente. Per esempio, le loro creazioni fotografiche non erano comprate dai turisti ma dagli abitanti stessi. Inoltre, era importante dimostrare che le preoccupazioni di un artista e cittadino di una capitale africana, non erano diverse da quelle di un occidentale. Tutto ciò in un periodo in cui nessuno sapeva granché su questo continente.

Una rivista di investigazione dai contenuti inediti e con un’impaginazione molto bella. Un oggetto di valore la cui pubblicazione era certo molto costosa. Come avete fatto?
Ogni trimestre era una lotta. Il lavoro di ricerca era quello che costava di più, perché ci volevano persone sul posto per scovare nuovi talenti. Insomma, alla fine abbiamo pagato di tasca nostra vendendo sei appartamenti situati al centro di Parigi. Gli aiuti dello Stato francese sono venuti dopo un anno, ma non permettevano di coprire tutte le spese. Avevamo anche uno studio di ingegneria culturale, uno dei primi creati in Francia.

Cover Revue Noir, 1995

Le donne qui sono in diverse foto, ma poche le firmano. Come mai?
Cercavamo delle donne fotografe ma era molto difficile trovarne. Nella pubblicazione dedicata alla Namibia c’era Maria Gethrud Namundjebo che inoltre scattava foto di donne, ma è sparita dalla circolazione, malgrado ricerche approfondite. Bisogna dire che la fotografia era per lo più un’attività commerciale.

La fotografia africana oggi è presente nel mercato, come nei musei e nelle collezioni. Quanto Revue Noire ha contribuito a questo successo?
Abbiamo pubblicato centinaia di fotografi e ne abbiamo visti migliaia, rendendo pubblica una fotografia che nessuno conosceva. Abbiamo fatto una mostra sulla fotografia africana nel 1992 a Parigi, che è stata la prima al mondo. La scelta la facevamo in rapporto alla qualità dell’opera, e in un periodo in cui il mercato della foto era inesistente.

Qualche rimpianto?
No! Abbiamo fatto il massimo con i soldi e il tempo che avevamo a disposizione, e con la gente che conoscevamo, cercando di dare un’immagine molto valorizzante di un continente. Abbiamo vissuto momenti di intensa felicità!

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