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Tecniche per reinterpretare la marginalità: intervista all’artista Lucia Leuci
Arte contemporanea
Il vero riconosce il vero è il titolo della mostra di Lucia Leuci (Bisceglie, 1977), a cura di Matilde Galletti, visitabile, fino al 16 febbraio 2025, negli spazi della chiesa di San Martino, all’interno di Palazzo dei Priori in Piazza del Popolo a Fermo. Nella mostra, viene riletta la storia cittadina attraverso una narrazione potente e stratificata. Al centro della personale, passato e presente si intrecciano in un gioco di rimandi e suggestioni. In particolare, la figura della Fornarina è stata scelta come icona contemporanea, combattiva e dinamica, immersa in scenari che mescolano mitologia, riferimenti musicali e quotidiani. Scontri simbolici, dettagli domestici e citazioni inattese, sono la materia prima di Leuci, che si insinua, come la Fornarina, nelle stratificazioni cittadine di Fermo, trasformandola in un palcoscenico di visioni potenti e immaginifiche. In questa intervista, l’artista racconta il dietro le quinte della sua ricerca, tra ispirazioni, scoperte e battaglie.

Gli oggetti quotidiani, piccoli e secondari, spesso bistrattati, che compongono i tuoi lavori si rifanno a un concetto onnipresente nella tua ricerca: quello di marginalità. Quanto è importante per te il decentramento e la periferia?
«Si tratta di concetti fondamentali per la costruzione dei miei lavori, sia a livello concettuale che puramente visivo. Gli elementi che utilizzo mi permettono di dare valore a ciò che solitamente è trascurato o considerato secondario, poiché possiedono un potere unico di specificità. Questi oggetti, che siano ammaccati o intatti, logorati dal tempo o ancora incellofanati, acquistati nei mercatini dell’usato, online, nei negozietti o nei mall cinesi, raccontano storie di persone e racchiudono significati nascosti che vanno oltre la percezione della loro forma estetica e della semplice rappresentazione, rendendoli così degni di attenzione.
Gli oggetti di uso quotidiano hanno un’incredibile forza espressiva e, tramite essi, posso esplorare temi legati alla marginalità, non solo intesa come uno spazio fisico, ma anche come una condizione sociale e culturale. La reinterpretazione di un trolley, ad esempio, offre l’opportunità di raccontare un concetto più ampio, come la folla di passaggio – dalla periferia alla città – che transita quotidianamente in Corso Buenos Aires a Milano. La periferia, sia geografica che emotiva, nel suo continuo moto di traslocazione, offre una prospettiva alternativa, dove ciò che è ai margini trova finalmente bellezza e spontaneità, e queste manifestano un valore intrinseco».
Nel riscoprire la storia marginale della Fornarina, la tua pratica sembra allearsi con chi è rimasto nell’ombra. Cosa ti intriga maggiormente di queste storie sopite e dei personaggi rimasti dimenticati dalla storia?
«Questa tua domanda mi spinge a riflettere sulla forte necessità che sento di non vivere il tempo della vita in modo superficiale, ma di cercare di lasciare un segno duraturo attraverso il linguaggio che più mi appartiene. L’arte, che trova in me una risposta viva, mi guida nel riscoprire continuamente quei personaggi che, pur non essendo sempre ricordati a tempo imperituro, hanno avuto un ruolo fondamentale nel cambiare il corso della storia. Il ruolo primario e le azioni compiute hanno contribuito attivamente a definire il presente e a costruire la storia di oggi, che porta con sé anche la loro eredità.
Di conseguenza, cerco sempre nel passato elementi che possano essere letti anche nel presente, fungendo da filo conduttore. Riscoprire, attraverso ricerche storiche, persone, azioni ed eventi che, riportati nel contesto attuale, possano rivivere attraverso le mie opere».

Le tue installazioni intrecciano la storia locale con frammenti del presente, come se la memoria fosse una sostanza malleabile, capace di plasmare nuovi spazi di significato. C’è un materiale, un dettaglio, un’architettura o un’ombra di Fermo che ha segnato particolarmente la tua ricerca per questa mostra?
«A Fermo si osserva chiaramente come, nel corso del tempo, ogni volta che si è dovuto intervenire sulle architetture esistenti per effettuare riparazioni, si sia cercato, con la stessa arte e le competenze a disposizione, di non danneggiare ulteriormente quel luogo, ma di ripristinarlo con grazia e preziosa attenzione. Per me è stato commovente notare come la mano esperta di un operaio – chissà chi, chissà quanto tempo fa – abbia saputo operare con maestria, colmando, ad esempio, un vuoto formatosi all’interno di un pavé. Con la cazzuola ha tracciato linee delicate sul cemento fresco, simulando così l’esistenza di altre pietre. Inconsapevolmente, ha creato un capolavoro accessibile a tutti.
Potrebbe sembrare solo un dettaglio, ma io, in quella riparazione, vedo quell’uomo piegato sulla strada e il suo pensiero che diventa bene comune, mettendo sé stesso e la sua esperienza a disposizione del patrimonio collettivo».
Nel cuore di Fermo, tra le pietre antiche di Palazzo dei Priori, hai fatto affiorare la voce di una panettiera che, in una notte del 1377, ha cambiato il destino della città. Se la Fornarina potesse camminare nella tua mostra oggi, quali parole credi che sussurrerebbe alle tue opere?
«Mi auguro che, nelle opere che la rappresentano, possa percepire lo stesso coraggio e la stessa determinazione che lei, con il suo gesto d’impeto e perseveranza, ha infuso nello scatenare una battaglia. Più che con un sussurro, desidererei sentire la sua voce gridare, potente e vibrante, e vederla scagliare la cenere come se ogni frammento fosse una rivincita, un atto di libertà.
Vorrei che la sua forza non fosse trattenuta, ma che si manifestasse in ogni gesto, in ogni parola, come una fiamma che brucia senza paura di consumarsi».

Il titolo della tua mostra è un’affermazione che risuona come un’eco e, allo stesso tempo, come una sfida: Il vero riconosce il vero. Nel tuo lavoro, come si manifesta questa idea di verità? È un atto di rivelazione, di creazione o di resistenza?
«Il vero riconosce il vero è una frase che, seppur originaria del linguaggio crudo del rap, evoca un principio universale: solo chi vive autenticamente è in grado di riconoscere l’autenticità negli altri. Questo concetto trascende il contesto musicale, trasformandosi così in un atto di resistenza, un rifiuto delle maschere sociali e un invito a coltivare connessioni e creazioni che non cedano alla superficialità.
Nel mio lavoro, la verità si rivela come un processo di riconoscimento e scoperta continua, che ha origine in tutto ciò che è periferico e nelle marginalità, intese in senso ampio. Le esperienze e le storie più nascoste mi offrono sempre rivelazioni e possibilità, che si traducono nelle opere che realizzo. Auspico che il messaggio di resistenza nel riconoscersi veri, ovunque e in ogni circostanza, persista, rimanendo saldo in ogni ambito».
Percorrere una città è come leggere un palinsesto di tracce e stratificazioni. Qual è stato il momento più vivido in cui hai sentito Fermo risponderti, come se fosse un organismo vivo che riconosceva il tuo sguardo?
«Fermo, nella sua interezza, mi ha immediatamente colpito per la bellezza architettonica, che sembra non accusare il passare del tempo, tanto che, successivamente, ho scelto di concentrarmi sullo studio delle strade, delle loro stratificazioni e dei differenti accostamenti tra mattonelle e piastrelle che riguardano le pavimentazioni degli interni.
Percorrendo, nei giorni di sopralluogo, i vicoli della cittadina, quasi per caso, ho “incontrato” il bassorilievo di Santa Maria della Carità, presente all’interno della lunetta che sovrasta il portale dell’ex Monte di Pietà: nel guardarla, ho provato un forte senso di protezione. La Madonna, scolpita in modo maestoso e sovradimensionato, raccoglie sotto il suo manto i piccoli esseri mortali e caduchi. Lavorando spesso sul tema della maternità e del “generare”, in quell’occasione mi sono sentita riconosciuta come parte di quell’umanità che Lei abbracciava».

Il 16 febbraio le luci della mostra si spegneranno e le opere verranno smontate e trasportate via da Fermo, tornando in dei luoghi in cui riposeranno, in attesa di essere riattivate. Della tua operazione, cosa speri rimanga sospeso nell’aria di Fermo? Un pensiero, un’immagine, una domanda?
«Ho voluto riportare in vita un personaggio storico quasi dimenticato e originario del territorio, creando uno scenario in cui manufatti antichi, luoghi e oggetti della vita quotidiana, interni domestici, strade ed edifici storici si sono intrecciati armoniosamente, reinterpretati attraverso la scultura. L’immagine della Fornarina si configura, quindi, come pretesto e messaggio per riflettere su un valore fondamentale: prima di qualsiasi interesse individuale deve prevalere il bene comune. Questo rappresenta il fondamento su cui si costruisce ogni progresso sociale e culturale, ed è per esso che è essenziale “muoversi” responsabilmente. È questo il monito che vorrei rimanesse impresso ai cittadini di Fermo e del mondo».
A volte, quando si concepisce una solo show, ci si addentra così tanto nella fase di ricerca che si aprono strade inaspettate, non sempre percorse interamente nel progetto. Anche in questa mostra trovi che ci sia stato qualche aspetto rimasto soltanto accennato e che terresti invece ad approfondire nel prossimo futuro?
«Col senno di poi, avrei voluto addentrarmi ancora di più nella rappresentazione della danza macabra, che funge da scenario apocalittico e sfondo dell’opera “Fornarina in lotta con sé stessa”.
Avrei potuto esplorare questa tematica con maggiore profondità, ampliando ed evidenziando il contrasto tra le figure centrali (la donna nuda e lo scheletro) e l’ambiente che le circonda (la pozzanghera e i mazzetti di fiorellini), mettendo in luce la tensione tra la caducità e l’eternità.
Penso che un’ulteriore riflessione su questo aspetto avrebbe arricchito il lavoro e ampliato le possibilità interpretative. Potendo dedicare più tempo a sviluppare questa dimensione, avrei integrato nuove simbologie, approfondendo le implicazioni del movimento e della disperazione che la scena evoca. Tuttavia, credo fermamente che ogni cosa occupi il suo giusto posto e che tutto giunga al momento opportuno. Mi tranquillizzo cercando di essere meno severa con me stessa, trovando orgoglio nel fatto di aver dato luce, con intensità e forza, a una suggestione che ha preso una bellissima forma».

Come mai nei tuoi lavori torna spesso, anche se in modo figurato, lo scontro, la battaglia tra due o più personaggi? Ti vedi come una combattente, parte di quella battaglia, oppure un soggetto super partes che la organizza e assiste allo scontro?
«La battaglia dei trolley, La battaglia degli scampi, La battaglia della Fornarina… È vero! Molti dei miei lavori sembrano dei ring di catch. Probabilmente sono stata affascinata dall’Uomo Tigre, che mi ha tenuto compagnia nei pomeriggi della mia infanzia…
In un certo senso, io stessa rappresento il mio personale terreno di scontro. “Io sono la battaglia”, potrei dire, parafrasando e attingendo allo stile linguistico diretto ed efficace del rap.
Non mi vedo come un semplice spettatore neutrale, piuttosto come parte integrante di quella lotta sempre in potenza. Le battaglie nei miei lavori sono un riflesso della mia interiorità, dei conflitti che vivo e che cerco di tradurre in immagini. Ogni scontro racconta qualcosa di personale: un processo continuo che mi riguarda, un’interazione tra le forze in gioco, siano esse esterne o interne».

I titoli dei tuoi lavori in mostra hanno una doppia anima. Ci sono quelli legati alla figura femminile della Fornarina e quelli che prendono spunto da oggetti domestici. Penso, da un lato, a Fornarina in lotta con sé stessa e Fornarina che corre a dare l’allarme, mentre, dall’altro, a Cuscino floreale e Divano anacronistico. Da cosa deriva questo binomio e come lo spiegheresti?
«I titoli di tutti i miei lavori nascono spontaneamente durante la fase di progettazione, con l’unico scopo di distinguere e individuare con maggiore facilità le opere sulle quali lavoro in contemporanea. Col passare del tempo, mentre li pronuncio e li cerco nei bozzetti, finisco per affezionarmici, acquisendone confidenza. Così, lentamente, si trasformano e diventano l’endorsement delle opere stesse, una parte integrante che ne arricchisce il significato e la percezione. Il titolo, quindi, non è una semplice etichetta, ma si trasforma in un elemento essenziale che riflette l’evoluzione e l’intento profondo di ogni progetto.
Per quanto riguarda Fornarina in lotta con sé stessa e Fornarina che corre a dare l’allarme, il soggetto è appunto la Fornarina che compie un’azione in movimento: nel primo caso, un moto introspettivo, nel secondo, una proiezione verso l’esterno.
In entrambi i casi, le emozioni che la travolgono sono eccessive e impulsive: l’una, cavalcando un destriero bianco fuori misura e brandendo un ferro da calza, riflette la propria figura gemella come se si trovasse di fronte a uno specchio; l’altra, accecata dalla frenesia e immersa nella foga della corsa, perde persino gli orecchini mentre viene travolta da un’esplosione di fruttini colorati.
Invece, nel Cuscino floreale e Divano anacronistico, gli interni dei meravigliosi palazzi nobiliari di Fermo – contenitori di arredamenti e suppellettili di indicibile bellezza – si fondono con le traiettorie di antiche strade, ancora oggi percorse e rinnovate infinite volte, creando un contrasto tra la staticità degli ambienti e la dinamicità delle vie storiche».

Cuscino floreale, 2024, ferro, resina, pigmenti, alluminio, 36x63x4 cm, foto di Alessio Beato