31 dicembre 2021

Gioco di ombre: John Stezaker alla Fondazione Morra Greco

di

Collage, cinema e ritagli di memorie di John Stezaker: la decennale ricerca dell'artista inglese, da scoprire nei tre piani espositivi della Fondazione Morra Greco, a Napoli

John Stezaker - © Danilo Donzelli photography

Cercando il monumentale Palazzo Caracciolo di Avellino, si attraversa l’antichissima via dell’Anticaglia, il decumano meno conosciuto in epoca recente ma sede della antica Napoli greco-romana aristocratica e che nasconde ai meno sapidi l’antico teatro a pianta semicircolare della polis, incastonato come un diamante tra palazzi di antichissima fondazione e nuovissima speculazione. Non lo si sa ancora ma, attraversando questi vicoli brulicanti di persone, motorini, auto, vecchie botteghe d’artigianato e antiche stamperie, per certi versi si è già in connessione con l’artista britannico John Stezaker che, tra fotografie, fotogrammi di film, cartoline e riviste, ripercorre 50 anni di carriera con 70 opere incluse nella mostra visitabile nella sede della Fondazione Morra Greco.

John Stezaker – ©Danilo Donzelli photography

E dalle mani di manichino esposte, tra le prime opere incontrate nel percorso espositivo (Touch II, VII, VIII e Give I e II, 1976-2012), appaiono preziose premesse metodologiche dei suoi lavori. L’incontro fortuito e simbolico con questi oggetti, staccati dalla propria sede “naturale” e abbandonati in una scatola trovata per strada, il “pensare con le mani” (Denis de Rougemont), la loro funzione sartoriale e manipolativa. L’arte di Stezaker naviga per cabotaggio, tra ritrovamenti fortuiti, fascinazioni oscure e tentativi falliti, materiali che “scadono” e si ricompongono sotto altra veste. Se secoli di immagini e immaginari, per la loro intrinseca animosità e instabilità, tendono da sempre a traboccare oltre i bordi delle nostre cornici concettuali, come e più di quelle di noce, mogano, vetro e cristallo liquido, è grazie all’incontro con le mani, entità indipendente e taumaturgica, creativa e divina, che assemblando e giustapponendo quella sostanza in realtà tutta materica, interrotta e disturbata dell’ immagine, se ne svelano i caratteri autocratici e onirici, manipolativi e alienanti.

John Stezaker – ©Danilo Donzelli photography

In questa epoca digitale in cui i comandi copia/incolla, cerca/sostituisci hanno assunto non solo funzione operativa ma anche forma di categoria sociale e “de-forma” di pensiero e atto, Stezaker sfrutta il gesto combinatorio, del ritrovamento e del taglio attraverso la materia viva della carta, pellicola e colla, agendo non sullo spazio/tempo fluido e disincarnato ma sulla nostra sostanza ancora tutta analogica, tattile e malleabile. E che è dunque ancora ancora possibile da rinsaldare, riannodare, in legami e “cuciture” desiderabili e intriganti.

Così, le rispondenze che Stezaker suggerisce tra le forme elicoidali di Angelus, Observatory I e III, (2015 – 2020) e la scala in piperno che sprofonda nelle pareti portanti del Palazzo Caracciolo o tra la falena bianca di Metamorphosis II (2015-2020) e la kafkiana immedesimazione con il rimosso e il perduto dell’artista. O come le ombre che proiettano individui impercettibili, spessi quanto il tratto di una biro e che si perdono nei minuscoli quadretti di Crossing Over Untitled (2012) suggeriscono quella manutenzione dello spazialità, del doppio, della schermatura tipica dell’artista, alla ricerca di un processualità sensoriale nuova, in grado di “de-narrare” e di ricercare ordini più “profondi” e collaterali di sensualità. Immagini che invocano di essere viste, che sembrano voler essere raccontate ancora una volta, per l’ultima volta.

John Stezaker – ©Danilo Donzelli photography31

E cosi veniamo catapultati su un set da cinematografo, nelle stanze di Shadow, grandi serigrafie con figure nere, ombrose, immerse in sfondi ora cerulei, ora blue notte. La trombe di Chat Baker e di Bird, il sassofono di Coltrane e il piano di Duke Ellington sono di sottofondo tra gli affreschi settecenteschi e le capriate di queste stanze al secondo piano. Non è illusione uditiva, ma il lavorio della nostro percettivo che entra in scena, preda della “stimolazione meccanica del desiderio” di Stezaker, lasciato nei vuoti di climax in cui è impossibile non tentare di ricostruire e ricostruirsi, con vecchie stringhe e frames che, sbagliate, confuse ma presenti, si scritturano da sole. Conversazioni, sguardi e battute vissuti in prima persona o in qualche vecchio film in bianco e nero, magari visto a pezzi o di sfuggita in una vecchia tv a valvole e che per seguirlo avevi bisogno di altri pezzi, di altri film, di altre storie già viste o vissute, per ricavarne un senso. E se Netflix e i canali streaming hanno distrutto quel flux infinito del broadcast televisivo a cui accodarsi di sera, magari in piena notte, Stezaker cerca di recuperarne quel sapore, quel fascino immaginativo, che “come il nostro inconscio, ha poco senso del tempo”.

Ma se le ombre di Shadow, orientati negli angoli bui delle stanze o avvolti dal ticchettio della pioggia perenne che proviene da fuori, hanno certamente una storia alle spalle, l’arioso loft che ci aspetta al terzo piano è saturo di frammenti, scaglie e di attimi in cui dark e bright condividono gli stessi pollici di carta fotografica. Tre serie di lavori (Double Shadow, Star e Dis-Astro) rappresentano 40 anni di sfide di sopravvivenza lanciate da Stezaker ai concetti e alle (nostre) paure di perdita, estinzione e morte.

Le armi sono pungenti come forbici appena pulite dalla ruota di un arrotino, affilate per tutto ciò che è trama, superficie e temporalità, meccanica e ripetizione. Il taglio “non esattamente un segno, come la pennellata”, forgia il collage, “sporco, infetto, da rifiuti”, che utilizza “residui e avanzi” di vite, perdute o mai conosciute.

Ma al di là del discorso ”forte” di Stezaker (il buio e i vuoti nelle inquadrature come la sembianza vivente della morte; le immagini “zombie”,  le forme da “liberare” dal contesto e da ogni funzione comunicazionale; il senso degli scatti che si trovano e in nessun luogo, perché articolabile solo dentro di noi), quella linea immaginaria, percettibilissima eppure assente, che attraversa ordini diversi e ne ricrea di alternativi, multidimensionali (tempie e colonne, sguardi e viali, cuori e rotaie) da un lato ne estrae il succo, la visione supplementare, focalizzandone particolari fuori dalle proprie sedi. Ma dall’altro, rende impossibile non rimanere immobili e stupiti, dinanzi alla bellezza nietzschiana e primitiva di una forma infinita, immersa in un cielo di stelle (Father Sky, 1989), che scruta il futuro radioso e ci osserva nel profondo.

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