15 settembre 2021

Verso Sera – EXATR

di

Intervista a Davide Ferri, per conoscere meglio il progetto “Verso sera” e il ruolo che le arti visive hanno assunto negli anni in occasione del Festival "Ipercorpo"

Giovanni Ozzola, Azul, 2018, stampa giclée su carta di cotone, dibond, cornice, cm 150 x 224, courtesy Galleria Continua

Torna a Forlì, negli spazi di EXATR e dell’Arena Forlivese, Ipercorpo il Festival Internazionale delle Arti dal Vivo, giunto alla XVII edizione intitolata “Secondo Tempo Reale”. Il programma si conferma come una cinque giorni ricca di eventi e di incontri tra performance, danza, musica e arti visive previsti tra il 15 e il 19 settembre. Claudio Angelini, direttore artistico del festival, sceglie di continuare la riflessione iniziata lo scorso anno, in piena pandemia, sull’importanza del presente e del saper “ascoltare”, della capacità di vivere in un tempo reale.
Il lungo elenco di artisti chiamati a raccontare questo nuovo “sentire”, tra cui troviamo Marco Frattini e Drovag per la sezione musica, Cristina Kristal Rizzo e Salvo Lombardo per la sezione danza, Monica Francia e Ilona Jäntti per le arti performative, rendono manifesta la scelta di una programmazione che metta al centro una relazione diretta e concreta tra artista e spettatore, per una scena che diventi un luogo di scambio reale e solido tra i due. Un spazio sempre importante è quello riservato alle arti visive che quest’anno propone importanti collaborazione e presenze, per la curatela di Davide Ferri. Ed è proprio Ferri che incontriamo in occasione della giornata inaugurale del festival, per conoscere meglio il progetto “Verso sera” e il ruolo che le arti visive hanno assunto negli anni per “Ipercorpo”.

Rispetto alle prime edizioni com’è cambiata l’attenzione che Ipercorpo ha dedicato alle arti visive?
Ipercorpo ha cambiato, negli anni, molti spazi – l’ex deposito ATR che è diventata la sua sede naturale, ma che oggi è in via di ristrutturazione; un grande edificio industriale, un ex macello collocato nella prima periferia della città; un’ex chiesa; la città intera, che vedeva coinvolti molti luoghi diversi) e ogni cambiamento è stato l’occasione per una messa in discussione del formato (che si è tradotta sempre in continui aggiustamenti) a partire dalla parola “festival”, così abusata. La sezione arte esiste all’interno di Ipercorpo dal 2012, ma nonostante sia arrivata un po’ più tardi credo abbia finito per rivestire un ruolo importante. La sezione non si traduce mai in una mostra vera e propria (un aspetto molto stimolante per me che tendo a pensare soprattutto in termini di mostre), e negli anni ha provato a reagire, adattandovisi, ai nuclei tematici che hanno generato le diverse edizioni. La sezione arte è dunque uno spazio di approfondimento dei temi del festival, che si svolge al cospetto di alcune opere che non sono quasi mai performance, proprio per far da contraltare alla diffusa performatività del festival. In alcune edizioni la dimensione discorsiva è stata preponderante (come in quella in cui si rifletteva sui problemi del lavoro oggi a partire da una collezione di pittura novecentesca presente in città, la Collezione Verzocchi, o quella che metteva al centro la figura del padre, naturale ed elettivo, un’edizione molto importante per me); in altre, come nelle ultime due, abbiamo cercato di favorire l’incontro del pubblico con l’opera, una diversa per ogni sera di “Ipercorpo” e all’interno di uno spazio adiacente a quello in cui si svolgono gli spettacoli teatrali e di danza, una ex arena estiva, dismessa dagli anni settanta, molto suggestiva.

Davide Rivalta, Aquila, 2018, bronzo, cm 140 x 65 x110, courtesy AP Projets d’Art

“Verso sera”, il progetto che curi per questa edizione di Ipercorpo, si nutre del confronto tra cinque protagonisti della scena artistica italiana, prediligendo un dialogo intergenerazionale. Mi racconti come hai immaginato questo incontro tra loro?
“Verso sera”, come dicevo, si svolge in uno spazio adiacente al festival e privilegia l’incontro tra corpo dell’opera e corpo dello spettatore ad un’ora precisa del giorno, all’imbrunire, quando la luce è morbida e digradante. Quest’anno c’è una netta predominanza di lavori di scultura; direi che la scultura traduce, anche in forma letterale, quell’idea di corpo dell’opera di cui parlavo prima. Si parte dunque con un lavoro di Emanuele Becheri, una scultura in terracotta che nasce da una pratica cieca e abbandonata, un agire non progettato che lo porta a seguire delle forme che possono incontrare altre forme, quelle degli scultori che del passato che ha guardato di più, per passare a Corinna Gosmaro, che dà vita a sculture di corda e bronzo che sono insetti e forme archetipiche che sembrano abitare lo spazio dell’arena rendendo lo spettatore vagamente estraneo a quel luogo; fino a Davide Rivalta, che realizza grandi sculture in bronzo, figure di animali che occupano lo spazio con dissimulata naturalezza, e allargano lo spazio di pertinenza della scultura ai paesaggi ai quali essi, gli animali, sono associati per consuetudine. Anche il lavoro di Giovanni Ozzola, un’immagine della serie Bunker stampata su grande formato, è idealmente scultoreo, nel senso che allarga lo spazio, lo amplia, lo fa diventare punto d’osservazione su un tramonto visto dalla finestra di un bunker. Il lavoro di Sissi, infine, l’unico performativo, Anatomia parallela, nasce e accompagna la pratica di scultura dell’artista, che ha al centro il corpo e le sue possibili estensioni, e dà vita a una specie anatomia emotiva a uso e consumo personale, raccontata dall’artista attraverso un linguaggio iperbolico, pseudo scientifico quanto discutibile, ed una serie di tavole dipinte.

Dopo un anno molto difficile, il 2021 ha segnato una ripartenza anche per le arti visive. Qual è la tua esperienza in merito?
Non saprei, non credo si possa ancora tracciare una linea di confine precisa tra lo scorso anno e questo. La ripartenza di cui parli sembra riguardare soprattutto le fiere, in questo autunno ce n’è una ogni settimana. Da circa un anno e mezzo mi sembra si proceda a scatti, all’insegna di quella balbuzie bulimica che fa parte da sempre del mondo dell’arte, tutto quello che si diceva riguardo ai grandi cambiamenti (di passo e di ritmo) che questo tempo avrebbe prodotto mi sembra si stia rivelando un po’ farlocco. “Ipercorpo” lo scorso anno non si è fermato, è stato solo posticipato (come del resto quest’anno), e ha cercato uno spazio per ribadire l’imprescindibilità del rapporto diretto tra spettatore e opera, sia essa uno spettacolo, un momento di ascolto musicale, o l’intervento di un artista.

Emanuele Becheri, Stilita, 2018, terracotta, ossido di manganese, cm 27,5 x 14 x 10,5, collezione privata

Forlì – la Romagna in generale – si mostra ormai da tempo come una realtà molto ricettiva per il contemporaneo. Come si colloca il tuo contributo in questo contesto?
Forlì è la città in cui sono nato, da anni abito lontano ma ci torno spesso perché ci vive la mia famiglia d’origine, però ho con la città un rapporto intermittente. Quel che mi sembra di vedere è che a un panorama teatrale molto importante, che ha segnato la Romagna dall’inizio degli anni Novanta, si è affiancata, negli ultimi anni, anche una energia attorno alle arti visive, rimaste in un cono d’ombra per molti anni. Questo grazie all’ostinazione di alcune figure, che attraverso le loro idee e proposte svolgono da tempo un lavoro egregio. Ne cito solo una: Selvatico, la rassegna di campagna a cura di Massimiliano Fabbri che si svolge nella bassa ravennate, ha mappato per anni alcune delle esperienze più interessanti della pittura italiana delle ultime stagioni. Per quanto mi riguarda il lavoro a Forlì è stato soprattutto in relazione a “Ipercorpo” e alla Collezione Verzocchi, della quale Ipercorpo si è occupato in due edizioni, una raccolta di quadri realizzata nel dopoguerra che include i maggiori artisti del tempo e che parla di lavoro, traducendolo in figure e forme che ne richiamano l’energia. È una collezione tematica, ma per me ha ancora un grande potenziale narrativo, e può essere un fenomenale contraltare storico per un racconto dell’Italia di oggi.

Quali differenze trovi rispetto al lavorare in un grande centro?
Le piccole città, diversamente dalle grandi, sono il luogo ideale per le lunghe fedeltà ai progetti e alle persone. Il mio lavoro con “Ipercorpo”, ad esempio, dura da una decina d’anni, come il mio insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Rimini, da più di quindici. Io mi sento irrimediabilmente provinciale, e cerco di applicare le stesse modalità anche quando lavoro nelle grandi città, che però in Italia non so bene quali siano.

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