24 luglio 2023

La performance, laboratorio del presente e del futuro: il caso Santarcangelo

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Abbastanza o non abbastanza? Questo è il dilemma contemporaneo. Al Santarcangelo Festival 2023, i linguaggi delle arti performative indagano sul limite: ecco cosa abbiamo visto

Nach, Nulle part est un endroit, ph. Thomas Bohl

Se si volesse racchiudere il senso di questa stagione storica in una frase amletica, l’espressione enough not enough – titolo ideato per il festival di arti performative di Santarcangelo dal suo direttore Tomasz Kireńczuk – ce ne restituirebbe la temperatura. Cosa può essere abbastanza, o non abbastanza, quando si parla dell’oggi e del futuro?  Dove si situa il nostro agire?

“Abbastanza” è un termine errante, impiegato sia per indicare qualità che quantità. Può delineare una possibilità in positivo o in negativo, un movimento tra due posizioni apparentemente divergenti, un territorio di mezzo mobile e indefinito che ci permette di esprimere la porosità della condizione individuale e sociale. Questa soglia sfumata, lasciata aperta a nuove direzioni di senso, è lo spazio scandagliato dalle opere performative, teatrali e musicali dei molti protagonisti internazionali che hanno animato per dieci giorni l’estate santarcangiolese, conclusasi con successo una settimana fa.

Kireńczuk ha scelto d’indagare il limine del presente attraverso le questioni di genere, le diversità e le nazionalità, le esistenze di dissenso o le azioni comunitarie, anche più marginali. E sempre mediante la centralità del corpo, della sua lingua che diventa teatro per dare spazio e potere a quelle parti dell’uomo inascoltate dalla società contemporanea.

Tra i diversi spettacoli visti negli ultimi due giorni, ce ne sono stati alcuni particolarmente significativi e coinvolgenti. Come la Vaga Grazia di Eva Geatti che ha esplorato insieme a cinque giovani attori e performer friulani la possibilità dell’essere di raggiungere un altrove grazie all’agire infrasottile dello spirito. Il punto di partenza per la loro incursione tra movimento, voce e suono è stato il romanzo Il Monte Analogo (1952, incompiuto) dello scrittore René Daumal, un racconto di avventure alpine senza epilogo che si conclude con una virgola e che lascia dischiusa la storia all’immaginazione del lettore o dell’interprete. Come sottolinea Geatti, è «L’unico romanzo al mondo (si dice) che si conclude con una virgola, e lì mi pare di percepire il pendolo tra il visibile e l’invisibile che mi interessa provare in scena e il proseguimento della scrittura sul palco.»

La Vaga Grazia si dispiega nello spazio come metafora di un viaggio iniziatico di ricerca verso l’autenticità dell’essere. Una regia sorprendente che ha condotto all’auto-creazione corale in tempo reale degli attori nella ricerca di coreografie inedite, ispirate dal lungo lavoro relazionale di gruppo e da un concerto di suoni sintetizzati prodotti dal vivo dal compositore Dario Moroldo in omaggio a una musica sperimentale anni ’50.

Eva Geatti, La Vaga Grazia, ph. Elena Liscio

Il corpo come unione di logos e di luogo dell’essere è il fulcro del lavoro di Anne-Marie Van, danzatrice-coreografa francese in arte Nach, che ha trasformato il krumping in una forma di conoscenza del mondo e delle sue identità plurime partendo dalle origini di questa danza urbana, nata nei primi anni 2000 in un sobborgo di Los Angeles. Nulle part est un endroit (= nessun posto è un luogo), titolo ispirato da una scultura di Richard Baquié, è una performance-conferenza, un’opera sui generis, durante la quale Nach ha spiegato al pubblico con energia e ritmo un linguaggio performativo praticato anche nelle banlieu (dove lei stessa ha avuto il suo “battesimo”) alla scoperta di un codice simbolico, ritualistico – una vera propria lingua alternativa di contro-risposta resiliente all’emarginazione sociale, che ha abbattuto i confini culturali e geografici. Il krumping è un’arte di comunicazione sociale soggetta a regole e riti, traslata dall’artista su un piano universale grazie a inedite contaminazioni con gestualità antiche, e altrettanto simboliche, prese dal flamenco, dal butō, dal kathakali. In questa straordinario lavoro il refrain del festival enough not enough riecheggiava nell’aria rafforzando il messaggio che siamo energia errante, corpi mobili, centri e periferie del mondo.

The Guxxi Fabrika, ph. Laura Celmina

E mentre il teatro contemporaneo ha confermato grazie al festival la sua vocazione di grande scultore dei moti esistenziali, altri progetti più installavi hanno contribuito a coinvolgere il pubblico in un’esperienza sociale di scambio, partecipazione e confronto. È stato così per The Guxxi Fabrika, a cura di Cote Jaña Zuriña, un laboratorio sartoriale temporaneo ospitato dentro un chiosco in legno in piazza Ganganelli durante i dieci giorni festivalieri. Ideato da un collettivo di quattro donne di età, nazionalità e professioni diverse, il progetto nomade invitava le persone a cooperare con le performer con il “taglio e cucito” di capi, accessori e oggetti d’arredo sia barattando i prodotti realizzati con altri prodotti di qualsiasi genere o con servizi. Un’opera ironica di critica ai sistemi consumistici della nostra società (gli oggetti erano realizzati con il tipico tessuto plastificato tartan bianco, blu e rosso delle sporte della spesa, da qui il rimando all’idea di un brand evocato dal titolo) che capovolge la prospettiva capitalistica nell’esercizio libero di scambio e divertimento.

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