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Banksy, l’artista anonimo più famoso al mondo, si trova a dover proteggere la propria identità segreta già quotidianamente ma nelle prossime settimane sarà impegnato a difendere anche il suo diritto di rivendicare il proprio nome. Una controversia legale con la società britannica Full Colour Black rischia di privarlo del marchio “Banksy”, segnando un caso emblematico nel rapporto tra arte, anonimato e diritto commerciale.
L’origine della disputa
Full Colour Black, società specializzata nella vendita di cartoline raffiguranti opere di street art, ha chiesto la cancellazione del marchio registrato dall’artista, sostenendo che non sia stato effettivamente utilizzato per fini commerciali. Il fondatore dell’azienda, Andrew Gallagher, ha dichiarato che Banksy non ha mai sfruttato la registrazione del nome per vendere prodotti, rendendo il trademark vulnerabile alla decadenza per “non uso”.
L’artista ha risposto accusando la società di voler legittimare la vendita di merchandising non autorizzato sfruttando il suo nome. In una delle sue rare dichiarazioni pubbliche, ha affermato: «Una società di cartoline sta contestando il marchio che detengo sulla mia arte e sta tentando di impadronirsi del mio nome per poter vendere legalmente merce contraffatta».
Un processo senza volto
Il tribunale affronterà il caso ad aprile e sarà una delle poche occasioni in cui Banksy – o almeno un rappresentante del suo team – dovrà parlare in pubblico per difendere il proprio diritto sul nome. La società Pest Control, che autentica le sue opere, cercherà di dimostrare che tra il 2017 e il 2022 sono stati regolarmente venduti prodotti con il marchio Banksy, tra cui orologi, tazze, magliette e borse.
Nel 2019, l’artista aveva persino allestito il pop-up shop Gross Domestic Product, una provocazione sulla mercificazione dell’arte, che però non ha mai aperto al pubblico. Tra i prodotti esposti figurava il giubbotto antiproiettile indossato da Stormzy a Glastonbury, un’opera che, ironicamente, potrebbe ora diventare una prova della sua attività commerciale.
L’ambiguità tra critica e tutela
La posizione di Banksy in merito al copyright è sempre stata volutamente ambigua. «Il copyright è per i perdenti», dichiarava in passato, criticando apertamente il sistema di protezione legale delle opere d’arte. Tuttavia, questo non implica la possibilità, per chiunque voglia, di rappresentarlo in modo fraudolento.
«Siete un’azienda che cerca di ottenere la licenza per l’arte di Banksy per uso commerciale? Allora siete nel posto giusto: non potete», si legge sul sito ufficiale di Banksy. «Solo Pest Control Office ha il permesso di usare o ottenere la licenza per la mia opera. Se qualcun altro vi ha concesso il permesso, non avete il permesso. Ho scritto “il copyright è per i perdenti” nel mio libro (coperto da copyright) e incoraggio ancora chiunque a prendere e modificare la mia arte per il proprio divertimento personale, ma non per profitto o per far sembrare che io abbia approvato qualcosa quando non è così».
La battaglia legale si scontra con un’altra argomentazione più ampia: il nome Banksy è ormai usato e abusato nel mondo dell’arte e del commercio, al punto che il marchio non avrebbe più la funzione di indicare un’unica origine commerciale.
L’esito del processo avrà implicazioni significative non solo per Banksy ma sortirà ripercussioni anche sul più ampio dibattito sul controllo della proprietà nel mondo dell’arte, in un’epoca in cui, a complicare le cose per il concetto legale di autorialità, si è messa anche l’Intelligenza Artificiale.