06 aprile 2020

C’era una volta in Vaticano: la benedizione di Papa Francesco

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Da Stanley Kubrick a Baghdad, un'analisi della regia panteisica che ha saputo raccontare la benedizione urbi et orbi di Papa Francesco, diventata già iconica

ANSA/ REUTERS/ YARA NARDI/ POOL

6 minuti. 6 minuti di silenzio. «Solo nel silenzio è possibile ascoltare Dio. Dio abita nel silenzio», così per brevi istanti la voce narrante. In questo lasso di tempo così paralizzante si susseguono soltanto due inquadrature. Il primo piano dell’ostensorio dorato, posto al centro dell’altare, cui si contrappone il campo medio del Santo Padre che vi è seduto dinanzi. Siamo all’interno dell’atrio della basilica di San Pietro, per assistere alla benedizione urbi et orbi di Papa Francesco. Per brevi attimi solo la voce di Orazio Coclite, voce storica di Radio Vaticana, risuona nello schermo. Alle spalle del Pontefice, la Porta del Filarete e il Cancello spalancati, con vista sulla piazza deserta, in questa fredda sera piovosa, con i lampeggianti blu delle Gazzelle della Polizia e la sagoma dell’Obelisco Vaticano sullo sfondo.

Nell’ultima scena che chiude la diretta, il profilo del Crocifisso ligneo di San Marcello (miracolato da un incendio nel 1519 e “salvatore” dei romani nella peste del 1522) che sgocciola, come bagnato da sudore, mentre le campane fuse nel 1785 da Valadier risuonano in MI2, per una Roma annichilita dalla paura.

«Da settimane sembra che sia scesa la sera». Le riprese del Centro Televisivo Vaticano sono curate in ogni dettaglio, tra primissimi piani e campi lunghissimi, con sei bracieri posti in cima alla scalinata della basilica, fari artificiali, ma soprattutto con i vespri a rendere il senso di una luce tenue, calante quanto poderosa.

La fattura è quella di un film, non di una diretta tv. Una regia panteistica, in cui ogni elemento, umano e architettonico, atmosferico e soprannaturale, è parso andare al proprio posto. Forse perché la preghiera e la benedizione Urbi et Orbi di questo 27 marzo appartiene a quella categoria di eventi che posseggono, fin da subito, una velatura diversa, una filigrana già mitografica. Una dilatazione rituale dei tempi di spettacolo che non ha nulla di televisivo o che, in effetti, riscrive il televisivo contraddicendolo in termini, vista la irripetibilità. Per il momento storico orribile, per la potenza degli attori, presenti e assenti, ma soprattutto per il suo oggetto d’ attenzione.

Un oggetto kubrickiano, mai pronunciato direttamente, annidato dietro le colonne, disteso a terra, fluttuante nell’ aria. Tutto ritorna nella Catholica Doctrina, tutto è dipeso da noi, dalle nostre azioni scellerate. «Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto», ricorda il Pontefice. «Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie». Proprio le guerre le abbiamo rese cool, rock, con nomi accattivanti (Enduring Freedom, Desert Storm) le abbiamo dedicato film, documentari, videogiochi, ci siamo goduti dal divano il cielo verde di Baghdad, le montagne di Kandahar e i quartieri sventrati di Grozny e Aleppo. Ma ora siamo trascinati tutti in qualcosa di invisibile, testimoniato solo da uno scarno, gelido, bollettino di tarda sera.

«Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». C’era bisogno dunque di avere una forma, di dare un volto allo scioccante spettacolo della minaccia, della rivale infinita della vita e della fede in Dio. E serviva un mattatore come Papa Francesco I, che “ha tenuto” dalla prima all’ultima inquadratura, mentre si ritirava tra le navate della basilica. Il suo incedere solitario e affaticato, claudicante ma deciso è stato all’altezza di quell’ altro grande attore del ‘900, quel Papa Woytjla, “l’atleta di Dio”, che seppe incantare e trascinare le masse. Nel marzo del 2000, malato e affaticato nelle carni, anch’egli invocò il Perdono con un sapido gesto attoriale, abbracciando quello stesso Cristo in Croce davanti a una folla di fedeli stipata all’inverosimile in San Pietro.

E qui un altro paradosso. L’ekklēsía greca, la qāhāl e ēdāh, l’adunanza del popolo ebraico, la Chiesa paleocristiana è sparita. Ma non è solo un ordine sanitario o una decretazione legislativa, è qualcos’altro. Una questione sociale e politica, culturale più grande. È come se il Demos, la Massa, la Moltitudine in rete, si fosse dileguata, smaterializzata, non più padrone né testimone di sé stessa. Come ricacciata, per l’ennesima volta, dai Giardini dell’Eden della Historia. E solo un vecchio, stanco ma coraggioso, lì a bussare di nuovo alle sue Porte e a intercedere per noi.

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