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Donna, vita, libertà. Intervista all’attivista dissidente Zehra Doğan
Attualità
Il Kurdistan è un vasto altopiano situato nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia. Non è uno stato indipendente, ma una regione geografica abitata in prevalenza da curdi e divisa fra Turchia (sud-est), Iran (nord-ovest), Iraq (nord) e Siria (nord-est). Una nazione senza Stato abitata, secondo le stime, da 30 – 37 milioni di curdi sparsi fra i 15 e i 20 milioni in Turchia, 6 e 8 milioni in Iran, 5 milioni in Iraq e oltre 2 milioni in Siria, cui vanno aggiunti altri 2 milioni nella diaspora più recente emigrata soprattutto in Europa. È in Kurdistan, a Diyarbakir, che Zehra Doğan è nata 35 anni fa, il 14 aprile 1989. Artista, giornalista e co-fondatrice di JINHA, la prima agenzia di stampa curda tutta al femminile, Doğan nel 2016 ha postato su Twitter un disegno in cui reinterpretava in modo sarcastico la conquista della città curda di Nusaybin da parte dell’esercito turco: è stata accusata di fare propaganda per l’organizzazione terroristica PKK, arrestata e poi definitivamente condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigionia. Mentre la notizia suscitava indignazione in tutto il mondo – anche Banksy prese posizione con un murales a New York diventato virale – Zehra in carcere non si arrendeva, e continuava a fare arte uscendo consapevolmente e non per costrizione dai tradizionali canoni dell’Occidente.

Nel 2020, qualche mese dopo un’importante mostra – la prima di impianto critico curatoriale dedicata alla sua opera – presso il Museo di Santa Giulia, Doğan inizia il suo percorso con Prometeogallery Ida Pisani. Negli anni tante sono le occasioni espositive che hanno visto Zehra protagonista, dall’11^ Berlin Biennale alla 1^ Malta Biennale, per esempio. Sempre nel 2020 Zehra è stata insignita del Premio Carol Rama, attribuito dalla Fondazione Sardi per l’Arte durante Artissima, che ha scelto di devolvere per la realizzazione di un laboratorio artistico a Mardin, città del sud est della Turchia e luogo d’origine della sua famiglia.
Riportiamo qui di seguito la conversazione tenutasi in occasione di un incontro pubblico al Museo Arte Contemporanea di Cavalese tra l’artista e la direttrice del museo Elsa Barbieri.
Zehra, benvenuta. Ti chiedo innanzitutto, come stai?
«Sto bene, ciao a tutti e grazie per l’invito. Spero che anche tu stia bene. Ho lavorato con te e cinque anni fa in occasione della mia prima mostra alla galleria Prometeo e per me è molto prezioso essere ancora in contatto con te da allora. In questo senso, mi sento fortunata di poter coltivare questo rapporto intimo con te. Ti ringrazio per aver stabilito un tale legame con me».
A proposito di Prometeo, cinque anni fa, in occasione della tua prima mostra a Prometeo, dove ci siamo incontrate, raccontavi di aver trovato la forza di continuare a fare arte nonostante la prigione nella tua fede. «La mia fede sia nella lunga lotta, condotta dalle donne del mio popolo per la liberazione della nostra terra occupata. Fin da quando ero bambina, sono stata coinvolta in una lotta per l’identità. A soli undici anni prendevo già lezioni d’arte all’interno del Centro di Cultura e Arti Curde. A quel tempo, questi luoghi erano gli unici che tenevano in vita la cultura curda ma erano vietati e sotto la pressione dello Stato. È lì che abbiamo praticato l’arte curda, vietata, con la nostra lingua madre, vietata, con strumenti, vietati. Ho imparato là che l’arte deve essere fatta persistentemente e di continuo. In prigione non mi sono aggrappata alle circostanze, e non ho cercato di trarne altro potere, avevo già quella fede e quella forza a cui mi aggrappavo fin da quando ero bambina». Ti chiedo Zehra, in questi cinque anni come si sono evolute la tua forza e la tua fede?
«Credo che in cinque anni siano cambiate molte cose per me. Devo dire che sentivo profondamente che la mia vita in esilio in Europa era un’altra forma di punizione e mi sono resa conto che ero sola in questa enorme prigione. Ero sempre assieme ad altri compagni in tutte le aree di lotta, anche in prigione. C’era uno Stato che ci opprimeva e noi lottavamo contro di esso. C’era un fronte e tutto dipendeva da quale lato del fronte si stava. Ora sono lontana dalla guerra che mi riguarda e devo continuare la mia lotta da un luogo relativamente lontano dal fronte. E allo stesso tempo, sono in una nuova prigione. Non posso tornare nel mio Paese, è come se fossi intrappolata tra i recinti minati che segnano i confini dei Paesi. In realtà, da qui la mia guerra è più grande, ma sembra che ci voglia più tempo per integrarsi in questa situazione».

Cosa è accaduto nel tuo passato recente?
«Negli ultimi tre anni ho vissuto per la maggior parte dell’anno nel Kurdistan iracheno, ma ora è molto difficile per me. Abbiamo creato lì una biblioteca femminile curda, ma per questo siamo state tutte sorvegliate dallo Stato turco. Tre delle mie amiche, anch’esse giornaliste, che gestivano la biblioteca, sono state uccise dai servizi segreti dello Stato turco. La nostra casa è stata sigillata dall’amministrazione del Kurdistan iracheno. Non potevamo nemmeno prendere le nostre cose all’interno. È stato emesso un nuovo mandato di arresto contro di me e il mio passaporto è stato confiscato. Ho dovuto chiedere asilo in Germania. Durante questo processo, non ho potuto lasciare la Germania per un anno. Lo scorso gennaio mi hanno dato un documento di viaggio per poter viaggiare. Tutto è controllato dallo Stato come per gli altri rifugiati. Nel caso improbabile che io faccia qualcosa contro la legge tedesca, che non ho ancora imparato a conoscere a fondo, il mio soggiorno potrebbe essere cancellato. Quindi devo stare molto attenta».
Perché?
«Perché ora sono una rifugiata».

Questo status personale come ha influito sul tuo pensiero?
«Non è cambiata la mia convinzione nella lotta, anzi, la mia convinzione e la mia determinazione sono aumentate ancora di più. Ho perso molti amici, non posso tornare alla mia lotta anche se lo volessi, ma devo ammettere che sono molto stanca. Sono cambiate molte cose, mi sono trasformata in un’addolorata che piange all’infinito i suoi amici. Prima ero una donna allegra, ora i quaranta vetri del mio cuore fanno tagli profondi ad ogni battito.
Tu lavori molto sul corpo, sul quello femminile. Tu stessa a Ida e a me hai detto: «Non possiamo separare la situazione in Kurdistan dalle politiche sul corpo femminile. Per migliaia di anni, la politica di guerra, della mentalità maschile è stata portata avanti sul corpo femminile». Zehra, chi sono le donne nelle tue opere? Per cosa “combattono”? E ti chiedo anche: queste donne hanno ancora speranza? Tu hai ancora speranza?
«Le donne delle mie opere sono donne che hanno lottato contro la mentalità maschilista fondando un esercito curdo interamente femminile fin dagli anni ’90 in una geografia come quella del Medio Oriente. Sto parlando di donne che hanno lottato non solo per la propria identità ma anche per la loro lotta di genere e che hanno combattuto contro un’organizzazione orribile come l’ISIS e hanno vinto. Queste donne sono quelle che hanno creato lo slogan e la filosofia di “Jin Jiyan Azadi”, cioè “Donna Vita Libertà”, che è nato in Kurdistan nel 1990 e che oggi è il motto della resistenza femminile in tutto il mondo. Questa filosofia significa “democratica, ecologica, una forma di governo in cui le donne sono libere”. Ed è per questo che siamo sotto costante bombardamento».

Perché?
«Perché la realizzazione di questa filosofia in un luogo come il Medio Oriente significa l’indebolimento della mentalità maschile di gestione dello Stato. Ma allo stesso tempo, le donne che esprimo attraverso la mia arte sono donne che subiscono pressioni a casa, sul posto di lavoro, per strada, in ogni campo e che in qualche modo continuano una forma amorfa di lotta contro queste pressioni. Ecco perché i corpi delle donne nel mio lavoro sono al di fuori delle forme corporee familiari. Queste donne e io abbiamo speranza? Forse sì, forse no, ma sappiamo che dobbiamo resistere, qualunque cosa accada. Questo è tutto».