17 gennaio 2020

La parte che resiste: intervista a Christian Raimo

di

Scrittore, insegnante e Assessore alla Cultura nel III municipio di Roma. Intervista con Christian Raimo, per una "pedagogia pubblica"

Intervista a Christian Raimo, giornalista, scrittore, insegnante e da giugno 2018 assessore alla Cultura nel III municipio di Roma, che ci ha raccontato di Grande come una città, il programma di pedagogia pubblica con incontri e lezioni aperte che porta la politica fuori dai luoghi istituzionali, di come si può reinventare e fare politica a Roma, e del perché è importante delegare.

La prima domanda che volevo farti riguarda il tuo percorso, la tua formazione. So che sei nato e cresciuto a Roma e che hai iniziato come cabarettista. Nel 2018 sei diventato assessore alla Cultura del III Municipio. Cos’è successo nel mezzo? Come sei arrivato a fare quello che fai ora?

«In mezzo sono successe un po’ di cose. A venti anni facevo il cabarettista, frequentavo il  seminario maggiore ed ero iscritto a filosofia. Ero un po’ indeciso all’epoca, forse come succede a molte persone di quell’età. A un certo punto ho provato a capire cosa volevo fare, qual era la mia vocazione, e ho tentato strade diverse, ma posso dire che tutto quello che ho fatto mi è tornato utile. Oggi sono un’insegnante, ho esordito presto come scrittore, lavorato per più di vent’anni in editoria e per tanto tempo come giornalista, cosa che continuo a fare. Mi sono costruito un’identità in questo mondo in cui con quattro lavori ci fai uno stipendio: fare l’insegnante mi è servito molto per fare il giornalista, fare il giornalista mi è servito per fare attività politica, fare attività politica mi è servito per fare lo storico. Potrei sembrare un dilettante in tutto, però ho cercato, e cerco anche oggi, di fare tutte queste cose, che non sono nemmeno così distanti l’una dall’altra, con serietà. Alcune non le faccio più ma sono contento lo stesso.»

Spesso si è portati a pensare che le persone, soprattutto in una città come Roma, non siano interessate alla vita politica e culturale del proprio quartiere, e della città. In realtà l’esperimento di Grande come una città , ha dimostrato proprio il contrario. A distanza di due anni, ti chiedo: ti aspettavi questo successo, questa partecipazione? 

«No. Però so, perché è una cosa che ho visto, che c’è un desiderio di fare politica e di fare cose insieme che è immenso. No, non mi aspettavo una partecipazione di queste proporzioni, ma un po’ ho fatto sì che avvenisse perché ho avuto la fortuna, e l’intelligenza, di non fare tutto da solo. Ovviamente si è trattato di un meccanismo di moltiplicazione gigantesca: Grande come una città oggi è un movimento formato da trentaquattro gruppi di lavoro, con un gruppo di coordinamento fantastico. Non disconosco i miei meriti ma ci sono persone che ne hanno altrettanti, se non di più. Questa cosa ha un valore enorme, è fatta di intelligenza politica, generosità, idee, militanza. Nel libro che abbiamo pubblicato, “Grande come una città. Reinventare la politica a Roma”, edito da Alegre Edizioni, viene raccontato tutto quanto attraverso trenta contributi. È un libro fatto a novanta mani proprio perché volevo che fossero i militanti stessi a parlare, non solo io. Il motivo? So che ci sono molte persone che hanno idee migliori delle mie e hanno fatto molte cose in più di me: coordinato la scuola di politica popolare, quella di italiano per stranieri, portato avanti un collettivo di genere femminista di qualità altissima, organizzato il gruppo di arti performative, di storia, e tantissime altre iniziative, con una qualità di pensiero e di azione incredibile.»

Come si fa ad andare oltre il singolo evento? Come siete arrivati a creare una vera e propria rete di scambi alla quale i cittadini possono appoggiarsi, gettando le basi per una consapevolezza politica?

«Delegando il potere. La soluzione migliore è sempre togliersi un po’ di potere e darlo a qualcun altro. È l’unico modo per creare una partecipazione vera. Potere vuol dire tante cose diverse: protagonismo, paternalismo, decisionismo, l’essere sbrigativi. Oppure: responsabilità. Delegare qualcun altro vuol dire pensare che in molti casi quel qualcuno vale più di te, è più bravo di te, può organizzare meglio di te, ha idee migliori delle tue. Questa cosa ho imparato a farla, sicuramente però ho ancora tanti difetti. Mi piacerebbe che tu intervistassi anche Maurizio, Annamaria, Silvia e tutti gli altri piuttosto che me. Sarebbe molto più interessante. Di me qualcosa si sa, si può leggere in giro. Il lavoro che hanno fatto Maurizio Berardini e Silvia Baralla quest’anno, come quello di altre tantissime persone, (ho fatto due nomi ma te ne potrei dire altri cento, duecento, trecento: e penso che i nomi siano importanti), ha meno possibilità di essere raccontato, ma è stato estremamente prezioso, perché pieno di intelligenza politica, cosa che per me è oggi è fondamentale avere.»

In passato hai parlato di “pedagogia pubblica” e di “cultura civica”. Puoi spiegarci meglio cosa intendi?

«Sì, mi piace parlare di pedagogia pubblica permanente. Credo che il valore politico dell’auto formazione delle comunità sia fondamentale. In questo momento non è tanto interessante capire come comunicare. Quella non è una cosa poi così difficile da imparare, tutti, chi più chi meno, riusciamo ad avere una certa capacità di comunicazione. Il punto, per me, sono la cultura politica e l’organizzazione, l’auto formarsi alla politica. Capire cosa ne penso dei conflitti di classe, dei conflitti di genere, dello sviluppo urbanistico, ad esempio. Quando affronteremo veramente questi temi? Prima lo si faceva grazie alle agenzie di formazione, ai sindacati, le famiglie, le parrocchie e le università. Oggi, invece, sembra che tutto sia pian piano scomparso dallo spazio pubblico. A me interessa fare questo, laboratori di storia aperti a tutti, una scuola di politica per tutti, trasformare le occasioni di incontro, i dibattiti e i luoghi di discussioni in assemblee aperte, perché penso che sia davvero fondamentale. Sono convinto che la politica del pensare sia meglio della politica del fare perché trasformare il pensiero si può tradurre in una forma attiva di trasformazione del reale. Ad esempio, se io invece di ricorrere alle multe sulla raccolta differenziata educo a una cultura ambientalista, in qualche modo ho fatto sì che quel processo di trasformazione della città non è avvenuto grazie al fatto che ci sono dei tecnici, delle norme che hanno portato a certe cose, ma direttamente dall’azione delle persone. Invece di andare a cercare come fare per costruire una biblioteca, sarebbe meglio instillare il desiderio in duecento persone ad avere biblioteca, e poi ad un certo punto questa si farà. Non serve tanto un parco, ma serve una comunità che poi quel parco lo mantiene, lo cura, lo usa. Poi certo, ci sono dei processi più difficili, ma in generale a me interessa, più che lavorare su un semplice progetto, lavorare con le persone.»

Christian Raimo
Grande come una città

I luoghi di Grande come una città sono i giardini, i parchi, le librerie, i cinema, le scuole e tanti altri spazi pubblici. Se da una parte a Roma esiste un’esperienza come questa, dall’altra da molti anni abbiamo assistito a quella “stagione degli sgomberi” che ha chiuso o minacciato, oltre agli immobili occupati, tantissime realtà che da anni operano sul territorio come l’Angelo Mai, la Casa delle Donne, Lucha y Siesta e il Nuovo Cinema Palazzo. Il perché di quest’onda repressiva è abbastanza chiaro. Tu quale futuro vedi per questi spazi e perché è importante che ci siano?

«Le persone che non riconoscono il valore di questi spazi, semplicemente non ci sono mai entrate. Negli spazi occupati ho visto alcuni dei migliori spettacoli di teatro di sempre. Ad esempio, in questo momento a Roma le cose più interessanti dal punto di vista del teatro comico sono quelle di SGOMBRO e del gruppo di U.G.O., esperienze che sono nate entrambe in spazi al limite, spesso occupati. Tutta la scena teatrale romana che oggi riceve il plauso di un pubblico internazionale è passata dal Collatino Underground, dal Teatro Valle, dal Rialto, dall’Angelo Mai, e da altri spazi occupati, liberi, pieni di inventiva. Che cosa intendiamo per cultura? Per me cultura significa dare la possibilità alle persone di fare arte. La cultura in sé per sé a me personalmente non interessa, a me interessa l’arte. La cultura è l’intelligenza politica per poter fare arte. Quando io riesco a creare quelle condizioni, tramite le istituzioni, il pubblico, la divulgazione e i processi di facilitazione, con cui gli artisti possono realizzare delle opere meravigliose poi fruibili da un pubblico, io lì ho fatto. E questa cosa crea uno spazio politico proprio perché trasforma la conoscenza delle persone e trasforma le persone. Se queste cose non vengono viste rimangono solo i pregiudizi.

Ad esempio lo scorso ottobre, in occasione del Romaeuropa festival è andato in scena all’Hangar 238 (un tendone da circo piantato a Montesacro, a via Monte Berico, in un’area completamente dismessa), “MBIRA”, uno spettacolo meraviglioso prodotto della compagnia ALDES – Teatro della Cooperativa. La serata è andata avanti fino alle 22.30 con un po’ di musica, e immediatamente abbiamo ricevuto lamentele, sono arrivati i vigili di quartiere per fare multe, ed è uscito un pezzo che ha ovviamente, svilito il lavoro dell’associazione. Questo fa capire quanto sia difficile. Si trattava di un luogo irradiante di iniziative e di cultura in un municipio di 205mila abitanti dove non abbiamo dei teatri o spazi dove poter fare arte, ma solo posti che spesso vengono affittati a chi vuole fare dei saggi. Io ho provato semplicemente a far vedere che un pubblico c’è, esiste.»

Hai parlato di politiche culturali. Secondo te, riferendoci sempre a Roma, cosa non fanno le istituzioni? Quali sono le mancanze più gravi?

«Non delegano. In questo momento per me la forza delle politiche culturali che può arrivare alla città è cercare di trovare delle formule amministrative di autogoverno. Prendiamo il Teatro Valle. Aver pensato di sgombrarlo, di neutralizzare quell’esperienza gigantesca, è stato un errore madornale. Le persone che hanno pensato di poter tradurre quella realtà in un’altra cosa, senza capirne l’importanza, hanno fatto uno sbaglio enorme. La stessa cosa è successa con il Rialto occupato, l’Horus, il primo Astra. Pensare che ci siano persone, ad oggi, che vogliano fare questo con tanti altri spazi è il segno di una forte incapacità di proteggere. Un altro esempio? Il Cinema Palazzo. Sgomberare il Cinema Palazzo vuol dire consegnare l’intero quartiere di San Lorenzo in mano alla speculazione.»

Christian Raimo
Grande come una città

In un tuo articolo hai scritto, riferendoti alla vicenda dell’incendio alla Libreria alla Pecora Elettrica dello scorso novembre: “C’è una cosa che ieri però è mancata. Quando il corteo ha finito di cantare Bella ciao, le persone sono rimaste in silenzio per mezz’ora, nessuno ha preso la parola, finché si sono disperse. Ci si è resi conto, in un modo o nell’altro, che mancavano le parole da dire e allo stesso tempo qualcuno che le pronunciasse.” Come si riempie questo vuoto? Cosa manca?

«Per fortuna alla fine mi sembra sia andata bene. Ci sono state tre assemblee al Forte Prenestino con tantissime persone, si è creato gruppo politico permanente che si chiama Libera Assemblea di Centocelle. Abbiamo provato a riempire questo vuoto con la stessa energia che portiamo in tutti gli altri luoghi in cui facciamo iniziative culturali e autodifesa del territorio, sempre contando sulla partecipazione delle persone che decidono di prendere parola e di fare politica attivamente. Abbiamo provato a riempirlo attraverso la parte che resiste di questa città: le palestre popolari, i teatri occupati, le realtà che si occupano di volontariato, con le scuole di italiano per stranieri e tante altre iniziative. Con tutte quelle cose, insomma, che ti fanno pensare di restare, e non che devi andartene via o nasconderti nella tua cameretta.»

Mi vengono in mente però tanti movimenti studenteschi o di ragazzi nati in quest’ultimo periodo,  dai Fridays for Future alle Sardine. Secondo te possono avere un impatto concreto? Stabilire un’inversione di marcia?

«Secondo me non si tratta di fuochi di paglia. Sinceramente quelli li ho visti da parte di generazioni più avanzate. Questi movimenti hanno una forza diversa, e delle istanze vere. Credo ci siano delle questioni, in particolare quella ambientale, il femminismo, l’antirazzismo e l’autogoverno che non possono non riproporsi. Magari questi gruppi non si chiameranno più Fridays for future o Sardine ma si chiameranno Distopia 2040, e le sardine diventeranno poi squali, non lo so. Qui si tratta di sintomi che come prima cosa devono essere capaci di organizzarsi e di sviluppare delle culture politiche. Qualcuno lo sta già facendo, ad esempio il movimento Non una di meno è una realtà organizzata, con una bibliografia, una cultura politica e una serie di pratiche nelle lotte, che oramai hanno acquisito e sanno padroneggiare anche le giovani generazioni.»

Quando una candidatura a sindaco di Roma?

«Penso che fare politica penso sia una responsabilità che si devono prendere tutti. Io me la sto prendendo e sto capendo, rispetto al mio ruolo, cos’è che devo fare. Una delle cose che ho imparato, e di cui sono sicuro, è che fare politica insieme, nei collettivi, nelle assemblee che durano sei ore è faticoso ma molto più divertente e produttivo che farla solo a forza di post e tweet cercando protagonismi. Rispetto alla tua domanda secca: conosco i miei limiti, e riconosco i valori di altre persone»

Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Per Piemme ha pubblicato il saggio-inchiesta Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra. Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo – sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory – ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile libero 2005). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile libero 2014). Per Einaudi ha inoltre pubblicato Il peso della grazia (2012), Tranquillo prof, la richiamo io (2015), Tutti i banchi sono uguali (2017), La parte migliore (2018) e Contro l’dentità italiana (2019). È redattore di «minima&moralia» e «Internazionale» e collabora con Il Tascabile.

twitter.com/christianraimo

 

 

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