30 giugno 2003

Intervista ad Igor Zabel

 
Igor Zabel vive e lavora a Lubiana. Da molti anni è curatore del Museo d’Arte Moderna di Lubiana. Ha co-curato Manifesta 3 ed ha pubblicato i suoi scritti in riviste e libri. La sua mostra, nell’ambito della Biennale di Venezia, è quella che –diciamolo!- ha convinto più di tutte. Netta, intima, solo velatamente freddina e concettuale. Una oasi di riflessione nell’Arsenale. Exibart l’ha incontrato…

di

Ho trovato interessante la sezione da te curata poiché mi sembra essere differente dalle altre…
Non ho ancora visto le altre sezioni, ma mi sono fatto l’idea che questa sia più semplice, più minimale.

Come hai lavorato con Bonami?
La sua idea sui sogni e conflitti era il punto di partenza che ho potuto sviluppare in assoluta autonomia. L’idea riguardava anche la questione della posizione dell’arte nella società, e di un dilemma che si ripropone da cento anni o più circa l’autonomia dell’arte. Come l’arte può produrre, in alcune circostanze, un senso pieno non essere soltanto vicino ad una sorta di decorazione. Come può avere un senso reale di urgenza. Era il punto di partenza di questa squadra e io ho deciso di scegliere artisti che lavorano in modo molto individuale, sviluppando un’arte molto precisa, rigorosa: un lavoro sistematico che a volte prende intere decadi. Ma ho anche scelto artisti che intervengono nei sistemi sociali o economici in modo riconoscibile. Volevo connettere questi due gruppi di artisti e ho voluto anche legare generazioni differenti, con artisti che hanno iniziato nei Sessanta con lavori molto importanti oggi e artisti che hanno lavori odierni. E ciò senza pretendere di avere solo le figure storiche.
Credo che sia stata una buona idea quella di Bonami di invitare curatori provenienti da culture differenti e da diversi contesti in modo da poter rappresentare le situazioni delle diverse aree del mondo.

Il tuo è un punto di vista da Europa dell’Est?Marko Peljan
Si e no, lavoro con artisti di tutto il mondo, ma il contesto in cui sono nato e cresciuto è quello. Il problema è come far diventare un vantaggio il mio punto di vista, che tende a voler essere generale e che è sempre coinvolto. In questo caso non ho pensato molto alla mia posizione di curatore dell’est, ma ho usato il mio personale punto di vista. La mia posizione è certamente limitata ma ho cercato di sfruttarla per costruire una mostra che tende a modo suo all’universale.

Non pensi che oggi sia più facile produrre una mostra che riguardi l’arte sociale?
Credo che le mostre sull’arte sociale siano il risultato di certi dubbi. Ma penso anche che sia impossibile separare la relazione di autonomia e di relazione che l’arte ha con la società e con il tema politico. Nel mio scritto ho fatto riferimento ad Adorno, il quale scriveva in un momento in cui l’arte politica stava interrompendo l’arte autonoma: parlare di arte autonoma e di arte impegnata nel sociale è stata, secondo me, l’essenza del secolo passato. Necessitiamo di una soluzione definitiva, ma ogni volta che trovi una situazione particolare questa evolve e cambia e l’arte e gli artisti si trovano di fronte ad apparati ideologici che gli sfuggono, come è stato anche il tentativo di assimilare arte e vita. I sistematici reintegrano dentro l’arte questi tentativi.
Simon Starling
Questa tua mostra mi pare in modo del tutto naturale fuori dalla questione della globalizzazione dell’arte.
Non so se la globalizzazione sia positiva o negativa. La globalizzazione economica può essere positiva per alcuni aspetti ma vedo che in questi ultimi dieci anni ha preso pieghe positive per gli artisti che sono molto più dispersi, non più costretti a stare nei grandi centri; ci sono più possibilità per gli artisti che giungono da aree marginali per entrare nel campo dell’arte, avendo più possibilità di scambi e una migliore comunicazione. Comunque non ho pensato molto alla globalizzazione in questa mostra in particolare.

Infatti la mostra sembra un poco utopica perché puntata sul sistema individuale, qualcosa che ha a che vedere con la libertà forse.
Infatti, anche se credo che una libertà personale possa esserci solo dentro la società, così come adesso alcuni pensano che l’educazione liberal non possa produrre personalità libere perché occorre prima conoscere la disciplina per poi organizzare un proprio punto di vista. Ci sono molti concetti di libertà e molti livelli. E’ indicativa la pubblicità contemporanea, che suggerisce o impone di essere libero, gioioso, di non prestare attenzione. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la libertà, non è questo il modo di produrre persone libere.

Come hai lavorato con gli artisti che hai scelto?
Conoscevo molti di loro prima e ho lavorato con la maggior parte di loro in differenti occasioni. Alcuni invece li incontro ora.

E’ cambiata la figura dell’artista nell’est dopo la caduta del Muro?30359
Si e sta cambiando velocemente. Anche nelle relazioni con il mercato internazionale dell’arte: questi artisti si stanno integrando lentamente ed aumentano di numero, come anche i musei e le istituzioni dedicate. Si stanno integrando nel concetto di arte europea ma mantengono anche una prospettiva in cui unire le diversità con relazioni aperte che non distruggano le diversità.

Che relazioni hanno con le istituzioni?
Difficile da generalizzare perché il ruolo dell’artista cambia nei differenti contesti, specie di quelli più sperimentali. In alcuni casi sono tollerati in altri no e diventa duro lavorare in ambienti isolati. Il ruolo è ancora quello di resistenza contro il regime, che ora sta diventando il mercato; usano molto questa rabbia contro il mercato e molto spesso utilizzano il linguaggio internazionale che però, è importante non dimenticarlo, cambia il suo senso in base alle zone in cui viene usato. Le frasi sono le stesse ma i contesti e i loro significati sono diversi. Una delle strategie degli artisti dell’est è quella di riferirsi al carattere dell’est, più passionale e irrazionale.

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nicola angerame

[exibart]

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