28 agosto 2001

Fino al 4.XI.2001 biennale_padiglione tedesco Venezia, Giardini di Castello

 
La Biennale è quella di arti visive. E siamo in coda per entrare nel padiglione tedesco. La folla è accalcata all’uscio: “se siamo in tanti, ci sarà qualcosa di interessante!”…

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La Biennale è quella di arti visive. E siamo in coda per entrare nel padiglione tedesco. La folla è accalcata all’uscio: “se siamo in tanti, ci sarà qualcosa di interessante!”. E anche il fatto che si entri in pochi alla volta implica, in un certo senso, che ciò che il padiglione accoglie abbia in sé qualcosa di mistico, che le riflessioni cui
porta raggiungano una dimensione intima così profonda da gustare e assaporare quasi in solitudine.
Si pensa di provare un qualche movimento di spirito o Padiglione Tedesco,Gregor Schneiderdell’anima. Ma non è proprio di quel tipo il moto che ci attende. All’entrata una hostess dalle maniere affabili distribuisce un volantino che avverte: “lei entra a suo rischio e pericolo”. La ringrazio, tra me e me penso pure che è carina, ma il titolo del lavoro, Totenhaus, distoglie la mia attenzione dalla signorina bionda. Significa “casa dei morti”. Rimango un po’ lì, a pensarci su mentre si consuma l’attesa.
La fantasia corre lungo paesaggi splatter con scene di zombie ecc. Riguardo la ragazza, penso alla gente, ma cresce la tensione. E il titolo dell’opera mi rimbomba nel cervello. Sto per entrare in una casa di morti e tra me e me penso che, tanto, tra morti viventi e vivi morenti, sono tutti uguali. Esce il classico gruppetto di giapponesi sorridenti, con “le pinne, fucile ed occhiali”, e arriva il mio turno. L’installazione di Gregor Schneider, Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale (quella tedesca, appunto) si presenta come un labirinto inquietante. Ci si muove difficilmente – questo è il moto che intendevo – e tra cunicoli e rampe si scorge la ricostruzione della casa dove ha passato l’infanzia.
Mi chiedo che cosa rappresenti la casa, perché associarla alla morte e all’infanzia, la più tenera delle età. Quanti ricordano con rancore genitori e fratelli maggiori? Che da piccoli dicevano che un giorno avremmo ringraziato per quei ceffoni. E oggi li malediciamo ancora per averci fatto perdere la festa con gli amici. Per non averci mai capiti. Per un’infanzia passata tra una cameretta e una cucina con la tv in bianco e nero sulla credenza. E nella rabbia, con le lacrime che appannavano gli occhi, la cucina, il corridoio e le immagini alla tv si distorcevano. Generando la sensazione di trovarsi realmente in un labirinto.
Relazionare l’infanzia alla morte è un po’ metterla a confronto con il suo opposto: la vita. Le immagini del passato corrono veloci quando si è dentro il padiglione tedesco. La nostra storia in quattro stanze, che raccontata ci può perdere. È un linguaggio che raggiunge molte persone. Riporta a sensazioni da cui certo non è possibile scappare.
Il lavoro valso alla Germania il premio come migliore partecipazione nazionale è dotato di grande forza evocativa. Propone una realtà inquietante come una giovinezza frustrata, da cui evadere. Ma dobbiamo farci i conti. Ecco che allora Schneider dà forma a questo pensiero. E lo realizza nella maniera per lui più rischiosa e dolorosa: cercando e rivivendo in sé quelle esperienze.
Correre indietro negli anni così profondamente, raramente consente una visione limpida del proprio passato. Se l’intento è riportare queste sensazioni all’attenzione del fruitore attraverso un percorso fisico e mentale, credo sia riuscita. La soluzione formale di questa esperienza si risolve in termini abbastanza minimal. Se, da un lato, ciò esalta il pensiero spostando l’attenzione da un piano estetico a uno più intellettuale, dall’altro si nota la difficoltà a staccarsi da cliché ormai collaudati per Padiglione Tedesco,Gregor Schneideraffrontare una ricerca formale più profonda.
Oggi i ricercatori in arte hanno a che fare con elementi nuovi e possibilità formali più vaste: dai codici binari della net art a materiali tecnologici che permettono ancora di sondare un nuovo terreno materico e segnico. Un premio meritato, se confrontato con gli altri concorrenti. Ma conferma la tendenza di curatore, giuria e commissari nazionali a essere più propensi alla sicurezza, anziché al rischio di presentare le ricerche degli ultimi due anni. Essendo biennale…

Silvio Saura



Giardini di Castello. Orari: da martedì a domenica 10.00-18.00; sabato 10.00-22.00.
Dal 10.VI.2001 al 04.XI.2001


[exibart]

4 Commenti

  1. Metto questo commento per capire meglio; non ho capito bene, infatti, perchè non ho dimestichezza con le modalità di fruizione delle installazioni. Praticamente… questo artista ha “ricostruito” la casa dove ha passato l’infanzia; cioé: le foto a lato dell’articolo rappresentano ambienti reali, tridimensionali, e non immagini realizzate su un supporto elettronico, dico bene? Queste immagini, voglio dire, non sono un Video. E il visitatore attraversa questi ambienti: è così che funziona? oppure c’è una qualche interazione tra utilizzo del video e ricostruzione “reale”? Scusa se sono domande un po’ banali, però quando si parla di “installazioni” non capisco mai (per limiti miei, ovviamente) cosa effettivamente siano. Volevo anche chiederti se c’erano opere di Videoarte, se le hai viste e come ti sono sembrate. Però rispondimi solo se non rubo tempo alle tue cose. Ciao

  2. Nessuno scippo di tempo. Anzi, ti ringrazio e rispondo volentieri.
    Hai capito giusto. Schneider, l’artista in questione, ha ricostruito gli ambienti di casa sua (non so quanto fedelmente, a casa sua non ci sono mai stato).
    L’installazione, per definizione, consta di elementi “reali”. Per carità, anche un video può essere parte – o tutto – di un’installazione, ma nel nostro caso non ci sono né monitor né tv. Il lavoro è proprio tridimensionale e occupa l’intero padiglione tedesco.
    La prima foto ritrae il lavoro completato; la seconda riguarda studi preparatori e la terza la realizzazione del lavoro.
    Capisco che si possa fare confusione, essendo questa la Biennale con il maggior numero di video mai presentata.
    All’Arsenale ne sono presentati un’infinità: da quello della moglie di Szeemann (che fino alla Biennale scorsa faceva pittura) che raccoglie le immagini di una partita di calcio in cui i giocatori indossano giacca e cravatta, a uno degli ultimi di Bill Viola. Ce ne sono veramente molti, pochi guardabili e meno ancora da ricordare.
    È facile lasciarsi affascinare dalle immagini in movimento. Ma è altrettanto facile cadere nel banale. La linea che divide la video-arte e il cortometraggio è sottile e, a mio avviso, abbiamo più opere cinematografiche che di arte visiva.
    Ancora una volta il mezzo da solo non basta. Le scelte di mezzo e messaggio, credo vadano parallele: se ho un buon messaggio ma sbaglio il mezzo, il contenuto non arriva. Viceversa posso scegliere un mezzo molto spettacolare (come il video, appunto), ma se non c’è un contenuto…

  3. Trovo molto giuste le tue affermazioni. Infatti penso che tu abbia toccato un punto nevralgico riguardo la definizione di “Videoarte”: quando dici “La linea che divide la video-arte e il cortometraggio è sottile e, a mio avviso, abbiamo più opere cinematografiche che di arte visiva.” Molti autori che utilizzano il supporto elettronico o digitale, secondo me, più o meno inconsciamente, mentre stanno realizzando, si pongono nei confronti dei loro lavori come se stessero facendo un film, e non cercano di sviluppare le potenzialità del nuovo formato. Non vorrei sembrare pedante, però vorrei trascrivere le riflessioni di J. Aumont su un lavoro di Viola: “Passage di Bill Viola (1987) metteva di fronte alla nostra vista un’immagine sbalorditiva perché troppo grande, impossibile da cogliere con un colpo d’occhio, presentata bruscamente alla fine di una specie di cunicolo. Il nostro corpo non sapeva più bene, nel tempo di un ondeggiamento tra la luce e l’ombra, se stava guardando l’immagine o ci stava camminando dentro. A volte anche il sogno non appartiene più al corpo, non ha più bisogno di immagine.” Secondo lo studioso francese l’utilizzo creativo del mezzo elettronico può condurre alla definizione di un modo completamente nuovo e ricco di rappresentare una realtà e a un modo (altrettanto nuovo ) di lasciarla fruire a chi sta guardando. La differenza sostanziale con il cinema consiste nel fatto che tali “realtà” elettroniche non comunicano affatto suggestioni negative, in stile “fine del mondo”, anzi, il Video consente il sollevamento su una ricchezza che è sempre positiva: cioè su una realtà, una dimensione, che può “dare” qualcosa a colui che vede in quanto frutto di una pura e disinteressata creatività. L’utilizzo perverso di tutto questo si nota nell’attimo in cui tali tecniche divengono “mezzo” e non più “fine”: quando sono un semplice effetto speciale. Ad esempio “Jurassic Park III”, e “The final fantasy”, film nei quali si attua un restringimento delle possibilità di guardare (l’ampiamento è a mio parere solo apparente). A questo punto entra in gioco ciò che dici tu, cioè bisogna capire quali opere che passano sotto l’etichetta Videoarte siano effettivamente tali. Infatti non è difficilissimo impossessarsi dei mezzi Video: molti possono farlo con una modica spesa. E molti, io penso, non hanno le capacità di lavorare con originalità: quindi riproducono la retorica del cinema (del resto, un filmmaker che gira in Betacam e monta in AVID, cosa fa? se è serio tenta di dare un contributo alla definizione del linguaggio del Video, ma se non sta attento la logica dei formati rischia di condurlo verso le medesime realtà cui egli tenta di fuggire…) Sarebbe davvero interessante creare uno spazio, sul Portale, in cui parlare di Videoarte, con equilibrio e lucidità, proprio come mostri di saper fare tu. Chiedo scusa a tutti per la lunghezza.

  4. Da l’Espresso on line (30.VIII.2001) il commento di Germano Celant a questo padiglione:
    “Entrare e visitare la casa di una persona è compiere un viaggio nella psiche dell’altro, scoprirne l’universo intimo e personale, quanto le paranoie e le ossessioni, la storia della sua cultura e della sua vita. Aprire le porte che danno accesso alle stanze o percorrere i pavimenti è condividere le vibrazioni fisiche ed emotive di un individuo conosciuto o sconosciuto. È quanto si prova nell’andare e venire, da scala a stanza, dell’opera di Gregor Schneider, giusto premio Leon d’oro di Venezia, che è il rifacimento, iniziato e ripetuto dal 1990 per il mondo, in scala reale della sua casa in un piccolo villaggio, Rheydt. Attraversarla e penetrare nei suoi anfratti, oscuri e umidi, grezzi e squallidi che formano un insieme labirintico di spazi enigmatici e impenetrabili, significa regredire allo stadio primitivo dell’esistenza. Qui le stratificazioni si intrecciano alle dislocazioni, cosicché i momenti regressivi della fanciullezza si mescolino con il mondo fantastico. La struttura della casa diventa, con la metamorfosi delle forme e dei dettagli costruttivi, il doppio espressivo dell’artista: un procedere romantico e metaforico che lega Schneider alla tradizione dell’arte nordica da David Friedrich a Joseph Beuys.”

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