11 settembre 2022

All the Beauty and the Bloodshed: la storia di Nan Goldin dietro il documentario

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Vita, arte e impegno civile: la storia di Nan Goldin dietro il documentario vincitore del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. E anche Luca Guadagnino dedica il premio al coraggio

La 79ma Mostra del Cinema di Venezia si è tinta d’arte contemporanea, anzi, nello specifico di fotografia e dei suoi risvolti sociali: “All the Beauty and the Bloodshed”, della regista Laura Poitras, si è infatti aggiudicato il Leone d’oro per il miglior film. Al centro del documentario – unica pellicola di questo genere in gara –, la vita personale travagliata di Nan Goldin, la sua ricerca artistica di forte impatto e la lunghissima battaglia contro la cosiddetta “filantropia tossica” e le relazioni troppo vicine e “pericolose” tra i grandi musei internazionali e la famiglia Sackler, proprietaria della famigerata casa farmaceutica Purdue Pharma.

All the Beauty and the Bloodshed: la storia dietro il documentario

Diapositive e dialoghi, fotografie e filmati, intrecciando dimensione intima e pubblica, per raccontare le vicende di Nan Goldin. Nata a Washington DC nel 1953, grazie al suo strenuo impegno Goldin è stata recentemente inclusa nella classifica delle 100 persone più influenti al mondo per il Time.

Ultima di quattro figli di un famiglia di origini ebraiche, Goldin trascorse l’infanzia prima nel sobborgo di Silver Spring, nel Maryland, poi a Lexington, in Massachusets. Nell’aprile del 1965, il suicidio della sorella maggiore, Barbara, che le causò un trauma difficile da superare. Espulsa da diverse scuole, a 14 anni abbandonò casa dei genitori e, dopo aver vissuto in diverse famiglie affidatarie, si iscrisse alla Satya Community School di Summerhill, nel Massachusetts. Fu qui che iniziò a fotografare, spinta da una delle insegnanti. Colpita dai film di Warhol e Fellini, amava sfogliare le riviste di moda, sognando di diventare una fotografa.

Trasferitasi a Boston, frequentò la scuola del Museum of Fine Arts, dove ebbe modo di seguire i corsi del fotografo Henry Horenstein, che avrebbe poi influenzato la sua estetica delle istantanee. Fu Horenstein a farle “Tulsa”, del fotografo Larry Clark, una cronaca della vita di un gruppo di giovani ribelli e tossicodipendenti della sua città natale in Oklahoma. Nan Goldin cominciò a usare la fotografia come una sorta di diario, riprendendo le sue coinquiline, due drag queen, sia a casa che nei bar. Per la tecnica usata e per i temi scelti, questo lavoro, “Ivy wearing a fall, Boston”, del 1973, si può considerare come il primo capitolo della sua carriera.

Nel 1978 fu a New York, dove partecipò alla fiorente scena artistica dell’East Village, documentando la scena musicale new wave e post-punk, la sottocultura gay e il mondo nascosto e atroce della tossicodipendenza. Nel 1979, a partire dal Mudd Club, Goldin organizzò uno spettacolo in vari club e discoteche, dal titolo” The Ballad of Sexual Dependency”, tratto da una canzone di Kurt Weil dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Si tratta di uno slide show di oltre 700 immagini, che avrebbe raccolto e ampliato fino al 1986, che ritraggono la vita bordeline della comunità di cui fa parte, insieme a momenti autobiografici. La serie fotografica di Goldin sarebbe diventata leggendaria per l’inedita narrazione visiva, candida e spietata, dolorosa e imparziale, della tossicodipendenza. La maggior parte dei protagonisti di Ballad morirà negli anni Novanta, per overdose o AIDS.

Per raccontare questa intensa storia, Laura Poitras, che nel 2015 vinse l’Oscar per il miglior documentario con “Citizenfour”, mette in primo piano proprio la “Ballad of Sexual Dependency”, . Ma sullo schermo scorrono anche gli altri corrosivi progetti di Nan Goldin, come “The Other Side”, “Sisters”, “Saints and Sibyls” e “Memory Lost”, esposti nelle gallerie d’arte e nei musei di tutto il mondo.

Dalla conoscenza diretta e senza filtri di questa tematica così scottante, deriva la sua presa di responsabilità verso la “filantropia tossica”. Nel 2018, infatti, Non Goldin fondò il collettivo PAIN, con il quale, negli ultimi anni, ha dato vita a decine di manifestazioni di protesta nei musei di tutto il mondo, denunciando pubblicamente i legami e le connessioni tra le istituzioni culturali e società dagli interessi niente affatto puliti. Tra i quali, appunto, la Purdue Pharma, società farmaceutica produttrice dell’OxyContin, un antidolorifico ritenuto tra i maggiori responsabili della crisi degli oppiacei che, negli Stati Uniti, ha fatto decine di migliaia di vittime per overdose

Dopo anni di lotta senza quartiere, tra i musei di mezzo mondo, come il Metropolitan Museum of Art, Goldin ha ottenuto risultati insperati, visto che molti musei, tra cui il Louvre, la Tate Modern e il Guggenheim, hanno deciso, con più o meno buona volontà, non solo di rimuovere il nome dei Sackler dalle targhe commemorative delle sale espositive, ma anche di non accettare più donazioni dal Sackler Trust, il fondo famigliare dedicato alle attività filantropiche e di mecenatismo.

Una retrospettiva del lavoro di Goldin, intitolata “This Will Not End Wel”, sarà esposta, da ottobre 2022, al Moderna Museet di Stoccolma, come prima tappa di un tour internazionale di musei che include lo Stedelijk Museum di Amsterdam (31 agosto 2023 – 28 gennaio 2024), Neue Nationalgalerie di Berlino (ottobre 2024 – marzo 2025) e Pirelli HangarBicocca di Milano (marzo – luglio 2025).

La dedica di Luca Guadagnino al coraggio

Premiato con il Leone d’Argento alla miglior regia anche il regista italiano Luca Guadagnino, in gara con il disturbante “Bones and All”. La Giuria presieduta da Julianne Moore ha poi assegnato il Leone d’Argento a “Saint Omer”, della regista esordiente Alice Diop, e il Premio Speciale a “Gli orsi non esistono” (No Bears), di Jafar Panahi, cineasta iraniano detenuto per la sua critica al regime. Proprio al coraggio del cinema ha fatto riferimento Luca Guadagnino che, durante la premiazione, ha dedicato il Leone d’Oro ai registi iraniani Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, arrestati nel loro Paese come Panahi.

Le Coppe Volpi ai migliori attori sono state assegnate a Cate Blanchett per “Tár” e a Colin Farrell per “The Banshees of Inisherin”. Taylor Russell, protagonista insieme a Timothée Chalamet di “Bones and All”, si è aggiudicata il Premio Marcello Mastroianni come giovane attrice emergente.

A vincere nella categoria Orizzonti, dedicata alle opere più rappresentative delle nuove tendenze, è stato invece il cupo “Jang-e jahani sevom” (Terza guerra mondiale) di Houman Seyedi. Sempre nelle categoria Orizzonti, i premi come migliore attrice e migliore attore sono andati all’italiana Vera Gemma, protagonista di “Vera”, regia di Tizza Covi e Rainer Frimmel, vincitori anche del premio per la migliore regia, e a Mohsen Tanabandeh, per “Jang-e jahani sevom”.

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