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David Lynch, signori! Basta sfogliare la sua filmografia per capire quanto bizzarro sia il grafico delle sue uscite tra successi, tonfi, recuperi, rivoluzioni, TV al posto del cinema, Leoni alla carriera anzitempo, celebrazioni, fischi, altre celebrazioni, ancora fischi. Il tutto in un pugno di film. A seguito di tutto questo la domanda è lecita: come ha fatto costui a non fallire? Qual è il mistero di Lynch? Forse la magia, diremmo noi. La stessa che funge da chiave di volta e da lucchetto in tutta la sua produzione.

David Keith Lynch nasce a Missoula nel 1946 e cresce in un mondo profondamente americano, lido dai geni di luogo completamente alieni a quelli delle avanguardie europee. Ma lui se ne frega e li trascina lo stesso laggiù, tra Midwest e West Coast, anzi, li introduce in metraggi che riproducano la forma cinematica dei suoi dipinti. Prodotti perturbanti ma anche brutalmente originali che ottengono un buon successo all’interno del circuito d’essai e permettono all’autore di iniziare a girare Eraserhead (lunga produzione, 1974 – 1977), opera prima di grandissimo successo underground che, giunto all’attenzione di Mel Brooks, lo condurrà alla regia di The Elephant Man (1980), splendido dramma che ne relegherà però la cifra a qualche sparuta sequenza onirica. Il successo planetario induce Dino De Laurentiis a volerlo per Dune (1984), trasposizione all’epoca ritenuta irrealizzabile del romanzo/bibbia di Frank Herbert. Risultato? In quei giorni uno dei più famigerati flop della storia del cinema, oggi un cult indiscusso e (se ci è concesso) con un primo tempo che fa ancora tremare alcune scelte di Villeneuve.

A questo punto la leggenda vuole che, per farsi perdonare del disastro, De Laurentiis avrebbe accettato di produrre Blue Velvet (1986): noir d’arte raffinatissimo, grande successo di critica e opera con cui Lynch torna alla sua poetica primeva. Il dado è tratto. L’autore nel frattempo scopre che l’unico ambiente veramente libero nel quale operare è la landa dei poveri cioè, in questo caso, la TV delle soap opera. E Twin Peaks (1990) è proprio questo: «la prima soap opera postmoderna» (Frost e Lynch dixerunt). In un’epoca in cui nessuno aveva ancora considerato l’effettiva portata creativa del reframing, cioè della possibilità consueta nelle soap opera di poter apportare cambiamenti agli script man mano che il serial procede, Lynch e Frost si avvalgono di un lavoro in itinere (in fieri, avrebbe detto Godard), una conquista capace di regalare all’immaginario sia il personaggio di Bob (escogitato a seguito di un errore di inquadratura) sia una preziosa milestone nella storia della serialità. Il successo è clamoroso e intanto, in parallelo, David gira Wild at Heart (1990), strana creatura ibrida che – vuoi la fortuna o vuoi la magia – si ritrova a Cannes durante la direzione di Bertolucci che se ne innamora e la instrada a una discussa Palma d’Oro resa ancor più glamour dalla stilosa relazione con la Rossellini. Lynch si trova sempre in mezzo a un sacco di italiani, sarà magia anche questa? Chissà. Il film comunque conquista la memorabilità e ha anche il merito di inaugurare, con Reservoir Dogs (1991) e King of New York (1990), la stagione novantina del neo-noir americano.
Due anni dopo, con Fire Walk With Me (1992), Lynch tenta di chiudere Twin Peaks senza però riuscirci troppo e torna nell’abisso nebuloso che ogni tanto frequenta. Per un po’ di tempo si imbarca in progetti seriali interrotti, ma alla fine riemerge con un altro denso, raffinatissimo noir decostruito: Lost Highway (1996). Il pubblico non è prontissimo e ancora non sa che «non capirci nulla adesso è un capirci qualcosa dopo la visione del film successivo». Servono cinque anni di brasatura sui vecchi titoli passati in home-video perché la gente possa imparare a uscire esaltata da un’esperienza come quella di Mulholland Drive (2001). Tra quella gente c’è nuovamente la giuria di Cannes che stavolta gli tributa uno storico Premio alla Regia che proietterà il regista in un Olimpo da cui non scenderà mai più, neanche dopo il controverso Inland Empire (2006), capolavoro estremo e psicotropo stavolta privo della chiave di lettura contenuta in un film successivo che, oggi lo sappiamo, non vedrà mail la luce. Al posto della chiave abbiamo però Twin Peaks – The Return (2017), opera monumentale capace di sopprimere la distinzione tra cinema e TV e di riassegnare senso al parzialmente obliato Fire Walk With Me operando un gigantesco reframe alla maniera illuminata delle “soap opera postmoderne”. Magia, signori! Quella di David Lynch, artista capace di fare reframing del cinema stesso e delle nostre menti e di convincere tutti, anche gli Studios, che va bene così. Onore al genio.