07 maggio 2012

Parola di critico

 
Come appare Roma nell’ultimo film di Woody Allen, caput mundi o souvenir per turisti? E la sua storia, quel poco di buono che siamo riusciti a mettere in piedi negli ultimi trent’anni, che fine ha fatto? Ludovico Pratesi ha visto To Rome with Love per Exibart. Ecco la sua critica. Dura e malinconica quanto il film di Allen

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Impietoso e realistico ritratto di un popolo smarrito e inconsapevole, superficiale e volgare, l’ultimo film di Woody Allen To Rome with Love è un’analisi in salsa agrodolce ma con toni a tratti spietati sugli italiani visti da oltreoceano. Dopo il garbato, sottile e raffinato Midnight in Paris, dove per ritrarre i francesi il regista aveva proposto un viaggio a ritroso nella storia letteraria ed artistica della Ville lumière, in un godibilissimo intreccio di incontri tra Gertrude Stein e Pablo Picasso, Salvator Dalì e Ernest Hemingway, per ritrarre la Roma del terzo millennio Allen ha fatto ricorso ad una trama di storie intrecciate tra loro alla maniera di una telenovela della peggior specie.

Niente riferimenti alla cultura né all’arte ma nemmeno alla letteratura, tutto il film è incentrato su una messa in scena apparentemente semplice ma in realtà piena di stoccate all’Italia trasformata in un patetico e mediocre palcoscenico affollato di personaggi di quart’ordine, ossessionati dall’apparire e privi di qualunque solidità, tanto da stupire perfino gli americani! Così, all’insegna della “malinconia di Melpomene”, la musa della tragedia di un popolo che ha dimenticato la propria dignità, Woody Allen inserisce nella sceneggiatura fin troppo banale tanti segnali della nostra disfatta, a cominciare dall’incapacità di dare indicazioni stradali allo squallore della vita familiare dell’uomo comune Leopoldo Pisanello, interpretato da un Roberto Benigni che si trasforma in una parodia del “borghese piccolo piccolo” quando diventa un divo della televisione per una mattinata.

Una Televisione che ha totalmente sostituito il mondo del cinema nell’immaginario collettivo tricolore, come aveva già mostrato il film di Sofia Coppola Somewhere – in cui la tappa italiana del viaggio in Europa dei due protagonisti era una serata dedicata ai Telegatti – qui la sua forza devastante è impersonificata da un attorucolo di quarta, interpretato con rara maestria da Antonio Albanese, con qualche vaga somiglianza con il nostro ex presidente del Consiglio. Non a caso, visto che l’intero film è intriso di riferimenti agli ultimi anni di vita pubblica italiana, illustrati con dovizia di dettagli, dalla escort in minigonna inguinale che ha visto passare nel suo letto la crème della buona società romana (una Penelope Cruz in grande forma!) al giovane architetto sfaccendato che si lascia sedurre dall’amica della fidanzata, una ragazza americana che snocciola citazioni da libri di autori che non conosce. Nemmeno l’arte merita rispetto in questa città, dove gli affreschi di palazzo Farnese dei Carracci vengono spacciati per la cappella Sistina, Antonio Pisanello viene scomodato per il cognome di uno sfigato e le suite dei grandi alberghi, arredate per altro con gusto assai dubbio, esibiscono dipinti figurativi e non opere contemporanee di qualità. Per non parlare del talento italiano, che si sviluppa ormai solo in situazioni paradossali, come l’impresario di pompe funebri che riesce a cantare romanze d’opera soltanto dentro la cabina della doccia, trasportata all’uopo sul palco del teatro.

In questa chiave non certo edificante, la scena finale dove Leopoldo Pisanello impazzisce in mezzo a via Veneto, triste e vuoto simbolo di una Roma dove il clima sereno e colto della Dolce Vita di Fellini e Flaiano, Pasolini e Moravia non è che un lontanissimo ricordo. Adesso Roma assomiglia ad un triste palcoscenico di cartapesta, una scenografia per turisti che si aggirano tra trattorie, pizzerie e botteghe di souvenir, che sembra non avere più bisogno della cultura e, quel che è ancora più grave, non essere più capace di affrontare le sfide del presente. Una Roma anacronistica dove l’Ara Pacis ospita improbabili sfilate di moda per modelle dalla coscia facile e l’Auditorium i turbamenti sessuali di un trentenne senza attributi. Insomma Woody, con questo film vuoi dirci che negli ultimi tre decenni l’Italia ha cancellato secoli di storia, di arte e di cultura? Se Parigi può essere interpretata con Picasso e Gertrude Stein, Roma non può puntare su Gadda e Pirandello, De Chirico e Burri, Vezzoli o Cattelan, MAXXI e MACRO e ridursi ad un outlet di clichè e stereotipi da quattro soldi? Siamo ridotti così male o non siamo capaci di esportare quel poco di buono che abbiamo fatto sul contemporaneo?

3 Commenti

  1. Caro Ludovico, sono appena rientrata da New York dopo 8 giorni di mostre e di Frieze… durante il volo di andata ho parlato a lungo del film di Woody Allen con Laura Cherubini e, tristemente, entrambe abbiamo fatto le tue dolorose considerazioni. Un regista geniale e colto come Allen ha dipinto Barcellona come una calda e sensuale città dell’amore, Parigi come una meravigliosa capitale europea ancora intrisa di letteratura e arte e Roma come una triste cartolina per turisti abitata da mignotte, faccendieri, politici corrotti e dominata dalla televisione più volgare e commerciale.Che disastro!!! eppure i nostri artisti sono bravissimi e le mostre più belle che ho visto a Ne York erano le personali di quattro artisti italiani Fontana da Gagosian, Pierpaolo Calzolari da Pace e Boesky,Giuseppe Penone da Marianne Goodman e per la pittura un Francesco Clemente in super forma…il nostro è un paese che si vuole male che non solo non sa valorizzarte i suoi talenti ma che distrugge anche il buono che ha…pensa al MAXXI…

  2. Cara Paola, ma le gallerie che mostravano gli artisti italiani di dove sono???? Di Roma???? Noooo (come direbbe Nino Frassica).

    La responsabilità di questa “Roma” (stereotipata ma veritiera nel film di Allen) è anche della generazione di Pratesi e Cherubini: una generaqzione traumatizzata da un paese prima DC e poi Berlusconiano. Il punto non sono gli artisti ma le persone che ci stanno intorno, incapaci di superare complessi di inferiorità sull’essere italiani. Ogni luogo è internazionale per definizione, e invece noi scimmiottiamo e inseguiamo in modo ridicolo (basta guardare il MAXXI) qualocsa che non siamo senza mai considerare Roma e i talenti italiani come qualcosa da curare veramente.

    Caro Ludovico, chi è causa del suo male pianga se stesso. La mia non è retorica disfattista, ma opinione che nasce dai fatti.

    LR

  3. Fontana da Gagosian, Pierpaolo Calzolari da Pace e Boesky,Giuseppe Penone da Marianne Goodman e per la pittura un Francesco Clemente in super forma:..alcuni dei quali da tempo in avanzato stato di decomposizione (R.I.P.)…come l’Italia di Allen.

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