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L’ultima edizione dell’Umbria Danza Festival è stata un elogio al corpo
Danza
È soprattutto nel Complesso Monumentale di Sant’Anna nel quartiere di Borgo Bello di Perugia, con all’interno un bellissimo Chiostro e altri spazi, e con incursioni a Palazzo Penna, all’Orto Medievale e alla Galleria Nazionale, che si svolge l’Umbria Danza Festival (20-29 giugno 2025), bella rassegna di danza contemporanea diretta con vivace cura e passione da Valentina Romito. Dieci giorni intensi di spettacoli e performance che meriterebbero una permanenza per tutto il periodo del festival, invece dei nostri soli due giorni. Ma tant’è, bastevoli per una full immersion in un clima di partecipazione e di visioni contemporanee della giovane danza e non solo. Ecco una breve traccia di alcuni spettacoli, alcuni dei quali ancora in divenire.

«Stare con ciò che resta, in una dimensione nuda, vulnerabile, forse inattraente». In 30 magnetici minuti la straordinaria Claudia Catarzi – danzatrice e coreografa attiva con nomi acclarati della danza contemporanea europea – ci incolla alla sua performance 14.610, titolo che riporta un numero. Su una piccola piattaforma orizzontale e inclinata a scivolo, con lo sguardo dall’alto, frontale, e rivolto verso il basso nella ricerca di posizionamenti, oscilla, flette, saltella, si tende tra improvvisazione e composizione in tempo reale. In quello spazio ristretto, limitando i movimenti che genera il suo corpo, l’artista fiorentina compone – sul lungo silenzio, poi su una musica di Julien Desprez – una ricca partitura coreografica fatta di equilibri, di posture plastiche, scultoree, di posizionamenti e sospensioni, di scivolamenti e rimonte, di attrazione verso il vuoto, esponendo la propria vulnerabilità e resistenza nell’oscillare, cadere e risalire.

Frutto di uno studio sulla lingua parlata e sul suo legame con il corpo, Folklore Dynamics dei coreografi e danzatori di VIDAVÈ, Noemi Dalla Vecchia e Matteo Vignali – in scena con altri tre performer -, attingono a storie, proverbi, giochi, superstizioni e gesti delle diverse tradizioni popolari italiane. Intesi a creare un forte senso di collettività, tra ritmi percussivi, voci, rivolte, risa, incantamenti, mutando abiti e maschere, i cinque bravi danzatori ricercano forme e rituali gestuali tradotti in movimenti corali e singoli, a tratti però un po’ confusi.

Con Baia, ispirato alla omonima città romana sommersa nel Golfo di Napoli, i due giovanissimi Marco Casagrande e Nicolò Giorgini, esplorando il rapporto tra memoria, tempo e spazio, elaborano una dinamica di movimenti fluttuanti (da sviluppare ulteriormente e più definiti), costruiti su un videomapping a terra (design Angelo Bitetti) di forme esagonali che emergono man mano i due corpi intensificano il loro attraversamento. Sul tappeto sonoro del sound designer Tony Perez, evocano crolli, riemersioni e sospensioni, fino al riaffiorare, sul fluttuare delle onde, dei mosaici sommersi.

In Cancan, dei palloncini neri a terra accolgono il lento incedere di tre danzatori, tra cui Fabritia D’Intino che firma la coreografia, le cui posture – delle gambe, nelle sequenze dinamiche che si succedono a terra, poi delle braccia, delle mani sensuali sui corpi, e altre posture ritmate, col risultato generale di un mero esercizio ginnico -, tendono a riprodurre il celebre ballo parigino ottocentesco Can can, con movimenti astratti in antitesi a quelli vivaci e rumorosi della danza. L’intenzione della coreografa è di «Riflettere sul legame tra intrattenimento, erotismo e virtuosismo», ma non basta l’accenno sonoro alla musica di Offenbach sul percussivo suono sovrastante, a ricordarci infine del senso di quel ballo.

È un elogio alle donne e alla loro corsa nel mondo il poetico assolo della brava Giorgia Gasparetto The home of Camila, la quale, attorno a un piccolo sgabello con sopra un ritratto, ingaggia una danza pacata poi sempre più energica per raccontare, tra forza e paura, il suo percorso verso la libertà, e l’ignoto. Un’indagine sul rapporto tra performatività e consumo è il brano di Francesca Santamaria, un breve estratto del suo intrigante Good Vibes Only (beta test), primo capitolo di un macroprogetto (debutto a ottobre al Romaeuropa Festival) volto a indagare il concetto di scrolling, sul quale la performer cambia compulsivamente le danze al variare velocissimo delle hit musicali.
Pensato per spazi urbani, Fllngls di Michael Incarbone, spin-off del più ampio Fallen Angels, è una performance in formato “live set duo”, dove il suono trova nel corpo vibrante della straordinaria danzatrice Erica Bravini – sempre in bilico tra resistenza e caduta, sospensione e urto – una potente cassa di risonanza.

Tra gli eventi site specific abbiamo visto la coinvolgente, allegra performance del bravo Rafael Candela muoversi in libertà e fantasia con la sua musica sotto cuffia, seguendolo tra le vie del centro storico, fino a raggiungere una terrazza dove il suo esprimere pensieri ed emozioni con il corpo era tangibile nei suoi movimenti generati attraverso gli sguardi del pubblico. La prossimità con l’opera d’arte è il fulcro di Niente è davvero permanente dove tra i quadri di una sala della Galleria Nazionale, Lucrezia Gabrieli coinvolge i visitatori nella visione e fruizione dell’opera, modellandoli e modellandosi nelle posture, nello sguardo, nel tocco lieve, negli accostamenti e dettagli, costruendo un improvvisato e inedito paesaggio umano partecipato.

Lo spettacolo più atteso era Ma l’amor mio non muore / Epilogue, terzo capitolo della Trilogia della Memoria (iniziata nel 2015), rivisitando ora 30 anni di sodalizio artistico, culturale e storico dei componenti della compagnia Wooshing Machine fondata a Bruxelles nel 1998. È un amarcord nostalgico, gioioso e ironico, musicale e teatrale, costruito come un mosaico che riunisce i tasselli di una storia d’amore e d’amicizia fra tre danzatori e coreografi storici della danza contemporanea europea, oggi sessantenni: Carlotta Sagna, Alessandro Bernardeschi e Mauro Paccagnella.
Teneri, seri, buffi, eleganti, litigiosi, fragili, sono meravigliosi nel loro mutevole relazionarsi, danzare, recitare, su un palcoscenico ricoperto di fiori; nel loro spogliarsi e rivestirsi di abiti d’epoca o di completi neri; nel trasformarsi con parrucche delle più varie fogge, tra risate, sguardi complici, giochi, seduzioni, complicità, mentre una playlist musicale segna brandelli di storie del tempo vissuto, e ricorda, come ripete una canzone di Lucio Battisti, che “Amarsi un po’ è un po’ fiorire, aiuta sai a non morire. Senza nascondersi, manifestandosi, si può eludere la solitudine”. E loro sono ancora lì (compaiono anche i volti in video ingigantiti su una parete, che guardano teneramente loro stessi in scena), nel presente, ancora uniti, con l’entusiasmo sempre vivo che non conosce l’usura dei corpi.
Lo spettacolo sarà in scena a Bassano del Grappa, il 22 agosto, nell’ambito di OperaEstate Festival.